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Is the title of the thesis in Economy of the Job introduced near the University of the Studies of Rome with the best note.
The Thesis in Italian language is available in format zip in the download area

Relatore

Prof.ssa
Marina CAPPARUCCI

Laureando

Valeria Maria POZZI

TESI DI LAUREA IN ECONOMIA DEL LAVORO ICT ED OCCUPAZIONE (REALE O VIRTUALE?):

IL CASO UNITEC

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA TRE: Studenti Eccellenti
fonte: Facoltà di Scienze Politiche Roma Tre

Sommario

1°: Progresso tecnico ed occupazione: sintesi dei contributi teorici

1.0. Introduzione

I più grandi economisti, dai preclassici ai contemporanei, hanno esaminato le condizioni ed i fattori di crescita del reddito individuale e delle nazioni in svariati modelli di sviluppo, considerando il progresso tecnologico come lo strumento chiave dello sviluppo dinamico della ricchezza individuale e collettiva. In tal senso, è necessario ripercorrere le posizioni delle più importanti scuole di pensiero sulla relazione intercorrente tra progresso tecnico ed occupazione per conoscerne le origini e studiarne le varie angolature.
E’ opportuno utilizzare questo tipo di approccio, non in quanto concernente la storia del pensiero economico, ma poiché è il più adatto a proporre le teorie e le nozioni (sia quelle più semplici sia quelle più complesse e realistiche) relative al legame tra l’innovazione tecnologica ed il numero dei posti di lavoro.

Si comincerà con l’introdurre il nostro argomento, illustrando brevemente le teorie, dominanti nel XVII e nel XVIII secolo, proposte dai mercantilisti ed, in seguito, si passerà a discutere quelle offerte dai classici, in primis la teoria della compensazione. Nel secondo paragrafo si studierà il pensiero neoclassico, nel terzo quello di Keynes e di Schumpeter, nel quarto ci si riferirà a studi teorici più recenti.
Per concludere, nell’ultimo paragrafo, si tenterà di dare una visione complessiva di tipo comparativo circa il pensiero dei principali autori delle varie scuole da noi citate in questa sede, inoltre, si proporrà uno schema riassuntivo generale che permetta di paragonare l’andamento delle diverse variabili che, secondo le varie teorie economiche, influenzano il legame tra progresso tecnico ed occupazione.

1.1. L’ipotesi di “compensazione” degli effetti: dai mercantilisti ai classici

Già i mercantilisti affrontarono il rapporto tra occupazione e cambiamento tecnico: quest’ultimo era allora definito come “Semplificazioni delle Arti”.
Queste erano generalmente viste con favore poiché, come sosteneva Sir William Petty² , permettevano ad “un uomo solo di svolgere il lavoro di cinque uomini” (Petty, 1690).
Tuttavia, non appena si manifestarono conseguenze negative sull’occupazione, si pensò a varare una legislazione restrittiva sull’uso dei macchinari.
Colbert³ stesso si oppose all’introduzione delle macchine (da lui definite “nemiche del lavoro”) nelle imprese private e, in tal senso, sviluppò una legislazione c.d. antimacchine. Viceversa, caldeggiò la loro adozione nelle imprese pubbliche “per accorciare sui tempi e risparmiare sui costi”.
I mercantilisti rilevavano i vantaggi di una superiorità tecnologica a livello di commercio internazionale, ma allo stesso tempo temevano disturbi sociali dovuti alla sostituzione di manodopera.
Il loro contributo, per certi versi, pose le basi per il successivo e più articolato pensiero dei classici.
Nel 1767 James Steuart, ad esempio, anticipò di mezzo secolo il pensiero di Ricardo, spiegando come un’improvvisa meccanizzazione potesse condurre ad una temporanea disoccupazione. Egli si rese conto del fatto che l’uso di macchine poteva ridurre i costi e, quindi, i prezzi, ma che raramente si rilevava un collegamento esplicito con la domanda di lavoro, per poterne così prevedere in modo inequivocabile il segno e l’entità della variazione finale.
Da un lato, non si negava il vantaggio sul fronte della competitività di prezzo dei beni ottenuti attraverso l’impiego delle macchine, dall’altro, si intuivano le incertezze circa gli esiti finali sul fronte occupazionale, che le stesse potevano comportare: “Se queste hanno l’effetto di togliere il pane a centinaia, precedentemente impiegati a svolgere semplici operazioni, esse hanno anche l’effetto di dare il pane a migliaia” (Steuart, 1767, libro I, pag. 256).
Infatti, nel lungo periodo si sarebbero verificati degli effetti compensativi (grazie all’aumento dell’occupazione nelle imprese che producevano macchinari e grazie alla riduzione dei prezzi, che avrebbe incrementato la domanda), ma, al contrario di quel che avrebbero poi assunto i sostenitori della legge degli sbocchi di Say5 , Steuart dubitava che i mercati si equilibrassero sempre.
Anzi, consapevole che il problema del reimpiego dei lavoratori disoccupati a causa delle macchine non potesse risolversi automaticamente, sosteneva che dovesse essere il governo ad affrontare e risolvere la questione.
Spettava all’uomo di Stato “evitare che le vicissitudini dei processi e dei prodotti danneggiassero gli interessi comuni a causa delle loro…conseguenze naturali” (ibidem, pag. 120).
Steuart sostenne che vi si doveva guardare come ad una questione di riallocazione dei lavoratori tra i diversi settori produttivi; dal momento che “una macchina introdotta in un’industria rendeva superflue in quel settore delle braccia, che potevano velocemente essere impiegate in un altro” (ibidem, pag. 120). Non né spiegò il motivo, né chiarì come doveva essere favorita la mobilità tra i vari settori, ma fu sempre questo autore ad intuire per primo che un ostacolo al reimpiego dei disoccupati può nascere dalle differenti capacità richieste dalle varie occupazioni, ribadendo che lo Stato deve alleviare i disagi di queste trasformazioni.
Gli economisti classici sostenevano la validità della teoria della compensazione6 , vale a dire del carattere temporaneo dei sacrifici che devono essere sopportati dai lavoratori a causa degli effetti diretti che il progresso tecnico porta sulla forza lavoro occupata.
Essi ritenevano che l’introduzione delle macchine nel breve periodo riducesse l’occupazione, ma che nel lungo la perdita dei posti di lavoro non rimanesse permanente, perché i lavoratori espulsi dalle macchine sarebbero rientrati nel processo produttivo per produrle e per rispondere all’aumento della domanda, determinato dalla diminuzione dei prezzi causata dalle nuove tecnologie.
In questa ottica, la compensazione degli effetti era un meccanismo endogeno e non richiedeva comportamenti particolari delle varie classi.
Sostanzialmente, la disoccupazione tecnologica per i classici potrebbe quindi aversi quando non si verifica un aumento della produzione capace di riassorbirla (giacché vi è un insufficiente incremento della domanda globale), oppure perché vi è un’offerta di capitale insufficiente a tal fine.
Nel 1776 l’opera di Adam Smith7 segnò la nascita del pensiero economico moderno. La rivoluzione industriale, che prese avvio in Inghilterra dalla seconda metà del Settecento, trasformò rapidamente le relazioni e i metodi di produzione industriali sancendo il passaggio da un’economia di scambio ad una basata sul sistema di fabbrica.
Per quanto riguarda il rapporto tra introduzione delle macchine ed occupazione, Smith non vedeva come inevitabile l’ipotesi della disoccupazione tecnologica. Egli riteneva sostanzialmente che gli incrementi di produttività8 , aumentando la produzione, avrebbero potuto lasciare inalterato il numero degli occupati, se il maggiore prodotto ottenuto fosse stato interamente collocato sul mercato: “Questo grande aumento della quantità del prodotto, dato dalla divisione del lavoro, è generato dallo stesso volume di occupati per tre motivi:

  1. per l’aumento della destrezza di ogni singolo operaio;
  2. per il risparmio di tempo, che viene normalmente perso nel passare da una specie di operazione ad un’altra;
  3. per l’invenzione di un gran numero di macchine che facilitano e riducono il tempo di lavoro” (Smith, 1776, pag. 6).

Secondo questo ragionamento, poteva esistere disoccupazione tecnologica solamente nel caso in cui il mercato fosse stato incapace di assorbire interamente la maggior produzione risultante dal cambiamento tecnologico.
Nel pensiero smithiano, la divisione del lavoro è posta al centro dell’attività inventiva perché essa consente di incentrare l’attenzione su una sola mansione od occupazione, così da accrescere i rendimenti.
Essa viene vista sostanzialmente come specializzazione, attraverso la quale viene meglio esplicitato il legame tra i diversi livelli della produzione ed i vari tipi di capacità dei lavoratori.
Nel suo schema teorico della struttura industriale, da lui esaminata nella suddivisione tra settori e rami, Smith considera diversi gruppi di lavoratori, le cui specifiche competenze intervengono utilmente nella produzione.
In conclusione, l’autore vede il fattore lavoro come un insieme eterogeneo, poiché coloro che partecipano al processo produttivo hanno capacità differenti ed un diverso grado di qualificazione.
Il pensiero di Smith influenzò notevolmente il dibattito che sorse di lì a poco sulla disoccupazione tecnologica, anche a causa dei vari avvenimenti storici del periodo.
Nel marzo 1812 si tenne la prima rivolta sociale organizzata contro l’utilizzo delle macchine in una borgata di Nottingham, in Inghilterra. Tale movimento, che fu definito “luddismo” dal nome del suo leggendario leader, l’operaio Ned Ludd, si opponeva all’introduzione di un nuovo grande telaio per calze (la Spinning Jenny) nella lavorazione a maglia a domicilio.
Era una rivolta contro la perdita di lavoro e la scadente qualità del prodotto, fatta da lavoratori indipendenti altamente qualificati. Essi si difendevano dall’estensione delle macchine, che permetteva il reclutamento massiccio di donne e fanciulli in sostituzione della forza lavoro qualificata.
Il “Generale Ludd” sosteneva che il deterioramento della qualità avrebbe determinato la perdita di molti mercati ed un ulteriore calo occupazionale.
Il movimento era ben organizzato ed ottenne qualche successo, ciò portò grande allarme: fu sempre più invocata la dottrina dell’economia classica per giustificare le azioni repressive contro i luddisti (che vennero puniti con la morte) e contro i sindacati.
Questo era lo sfondo che diede vita al pensiero ed all’opera di David Ricardo9 ,economista classico che per primo esplicitò un mutamento di opinione, rispetto alle teorie precedenti, sulla questione dell’impatto occupazionale dell’innovazione.
Nel 1821 Ricardo nella terza edizione dei suoi Principi10 affermò chiaramente che l’introduzione di innovazioni tecnologiche poteva danneggiare i lavoratori, poiché l’elevato costo dei macchinari, riducendo il fondo salari, avrebbe potuto creare disoccupazione.
Ricardo sostenne, più precisamente, che la sostituzione delle macchine al lavoro umano si rilevava, in genere, dannosa agli interessi della classe dei lavoratori, mentre risultava normalmente vantaggiosa per i capitalisti ed i proprietari terrieri. In proposito scatenò un’aspra diatriba affermando: “L’opinione, propria della classe operaia, che l’impiego di macchinari sia spesso nocivo ai suoi interessi, non è fondata su pregiudizi od errori, ma è allineata con i corretti principi dell’economia politica” (Ricardo, 1817, pag.392).
Il ragionamento si basa sul presupposto che l’incremento di prodotto netto, generato dal cambiamento tecnico (di cui beneficiano soltanto i proprietari terrieri ed i capitalisti) non necessariamente risulta accompagnato da un incremento del prodotto lordo (dal quale dipende, invece, il reddito complessivo ed il livello dell’occupazione globale): al contrario, questo può addirittura diminuire.
Ricardo dimostra che l’introduzione delle macchine porta ad un cambiamento della composizione del capitale, trasformandone una parte da circolante a fisso.
Se il capitale totale è dato, l’aumento di quello fisso riduce la quota di capitale circolante destinata al mantenimento dei lavoratori (fondo salari), quindi porta ad una riduzione dell’occupazione.
Se l’impiego delle nuove tecnologie (e quindi di una nuova tecnica di produzione) assicura gli stessi profitti della tecnica precedente, anche se con una produzione minore, allora il capitalista può ritenersi soddisfatto, mentre i lavoratori risultano danneggiati da quella che Ricardo chiama “disoccupazione da meccanizzazione”.
Per accrescere il capitale circolante esiste però la possibilità di accrescere il capitale globale: essa dipende da una propensione al risparmio sul proprio reddito positiva del capitalista e dalla diminuzione dei prezzi11.
Ma, se queste due condizioni non fossero verificate, si genererebbe disoccupazione a causa degli sfasamenti temporali e dell’inflessibilità dei meccanismi del lavoro, direttamente conseguenti a limitazioni dell’offerta. A quel tempo, in ogni caso, Ricardo si sentì obbligato a modificare la sua formulazione alquanto severa e a rilevare gli effetti compensativi di lungo periodo.
L’introduzione delle macchine favorisce la diminuzione dei prezzi delle merci, in quanto abbassa il costo di produzione; così, a parità di redditi nominali e di bisogni, il capitalista potrà risparmiare di più.
L’aumento di capitale permette di incrementare l’occupazione. Addirittura, ove la produzione aumentasse, grazie alle macchine, tanto da fornire sotto forma di prodotto netto lo stesso volume di beni precedentemente avuto come prodotto lordo, non vi sarebbe necessariamente neanche disoccupazione.
Fondamentalmente, Ricardo ritiene che macchine e lavoro siano in costante competizione tra loro e che l’introduzione delle macchine nella produzione delle merci dipenda dal prezzo del lavoro. In conclusione, nello schema ricardiano il progresso tecnico è risparmiatore di lavoro nei confronti delle produzioni interessate al mutamento tecnologico. La possibilità di riassorbimento dei lavoratori “liberati” dipende dalla dimensione del prodotto netto che determina il livello di accumulazione del capitale, dalla quota di questo destinata a capitale circolante e dal livello della domanda di beni e servizi. In alcuni casi, tutti questi elementi potrebbero favorire il riassorbimento della “disoccupazione da meccanizzazione” attraverso la crescita dell’occupazione complessiva.

Un altro degli autori fondamentali del pensiero economico inserito all’interno del filone classico fu Karl Marx12.
Egli ritenne che il progresso tecnico fosse una variabile fondamentale di tutto il sistema economico. In tal senso, il capitalismo era caratterizzato da una continua ricerca di nuovi prodotti e processi industriali.
Pose l’accento specialmente sull’importanza delle trasformazioni sociali causate dalle “rivoluzioni tecnologiche”.
Marx evidenziò che aspri conflitti nel mercato del lavoro possono portare ad un’accelerazione dei processi di meccanizzazione, con una conseguente espulsione di numerosi lavoratori dal processo produttivo (Marx, 1952, I, cap. XIII, 5).
Secondo la sua visione, la concorrenza tra imprenditori fa sì che loro stessi adottino tecniche a sempre maggior intensità di capitale, provocando indirettamente una pressione al ribasso sui salari: “Quanto più il capitale produttivo cresce, tanto più si estendono la divisione del lavoro e l’impiego delle macchine. Quanto più la divisione del lavoro e l’impiego delle macchine si estendono, tanto più si estende la concorrenza degli operai, tanto più si contrae il loro salario” (Marx, 1849).
Marx inoltre sottolineò che l’accumulazione del capitale, base dello sviluppo economico, provoca l’incremento della composizione organica del capitale, vale a dire del rapporto tra capitale fisso e variabile.
Questo si traduce in una diminuzione relativa della domanda di forza lavoro e, quindi, in un aumento della disoccupazione. Si crea così un esercito industriale di riserva, la cui dimensione varia nelle varie fasi del ciclo economico.
In conclusione, per Marx la disoccupazione tecnologica é provocata da una progressiva sostituzione delle macchine al lavoro.

Nota 1: L’espressione “mercantilista” fu utilizzata per la prima volta da Adam Smith per indicare la politica protezionista degli Stati europei del 1700. I mercantilisti erano un insieme eterogeneo di autori vissuti tra il XVI ed il XVIII secolo; molti di loro ricoprirono ruoli nella vita pubblica dei loro rispettivi paesi.
Nota 2: Sir William Petty (1623 – 1687) si occupò di economia politica e fu un pioniere della statistica. Affermò l’importanza dell’osservazione e della misurazione numerica degli aggregati economici. Fece parte dell’armata di Oliver Cromwell e partecipò alla spedizione che represse la rivolta irlandese.
Nota 3: Jean Baptiste Colbert (1619 – 1683) fu ministro delle finanze di re Luigi XIV per 22 anni. Egli fu tra i massimi esponenti del pensiero mercantilista
Nota 4: James Steuart accettò una responsabilità di governo per mantenere stabile l’occupazione, mediante una serie di misure interventiste.
Nota 5: La legge degli sbocchi di Say afferma che sia l’offerta a generare la propria domanda. In tal caso, non potrebbero esservi situazioni di squilibrio.
Nota 6: Tale teoria esprime la tesi centrale del pensiero neoclassico riguardo gli effetti del progresso tecnico sull’occupazione. Gli esponenti di questo filone di pensiero la tratteranno e svilupperanno compiutamente. Riteniamo dunque più opportuno rinviarne la trattazione nel sottoparagrafo 1.2.1.
Nota 7: Adam Smith (1723 – 1790) fu il fondatore dell’economia moderna. Scrisse come pietra miliare della teoria economica Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations.
Nota 8: Per produttività si intende la quantità di prodotto ottenuta per ogni unità di lavoro immessa nel processo produttivo.
Nota 9: David Ricardo (1772 – 1823) fu economista ed uomo politico inglese, propugnatore del liberismo. Si occupò di questioni concernenti la rendita, i dazi agrari, il commercio internazionale. Influenzò il pensiero politico di Marx.
Nota 10: Nella sua opera più importante, On the Principles of Political Economy and Taxation, Ricardo trattò nel capitolo XXXI (on Machinery) l’argomento dell’introduzione delle macchine nei processi produttivi.
Nota 11: Per Ricardo, a dover aumentare sono i salari reali e, poiché i redditi monetari sono assunti costanti, deve diminuire il livello dei prezzi.
Nota 12: Karl Marx (1818 – 1883) fu economista e filosofo. Elaborò una filosofia complessiva, il “materialismo

1.2. La compensazione nella flessibilità dei prezzi e dei salari: i neoclassici

La teoria della compensazione, formulata dai neoclassici, poggia su alcuni assunti fondamentali che, principalmente, fanno perno sulla legge degli sbocchi di Say: in particolare, viene postulata la flessibilità dei prezzi e dei salari, quale meccanismo di aggiustamento in grado di riassorbire la disoccupazione inizialmente creata dall’introduzione delle macchine.
Altre importanti ipotesi poste alla base del ragionamento neoclassico sono quelle della concorrenza perfetta di tutti i mercati e la tendenza di questi a realizzare sempre l’equilibrio, a meno dell’esistenza di “attriti”.
Inoltre, si ipotizza la perfetta sostituibilità tra i fattori della produzione.
Charles Babbage¹ va sicuramente annoverato tra i sostenitori della compensazione. Il suo trattato Sull’economia delle macchine e della produzione (1832) è l’apoteosi dell’applicazione del sistema scientifico alla vita economica. Conosceva approfonditamente molti processi industriali ed affrontò con originalità il tema dello spiazzamento della manodopera a causa della meccanizzazione: per lui, inserire macchinari era, infatti, soltanto un modo incompleto per aumentare la produttività del lavoro.
La prima edizione della sua opera ebbe un tale successo che dopo pochi mesi ne uscì una seconda, nella quale aggiunse un capitolo Sull’effetto delle macchine nella riduzione della domanda di lavoro.
All’inizio di questo capitolo, egli dà piena fiducia alla teoria della compensazione sostenendo: “Nei paesi dove le occupazioni sono divise e la divisione del lavoro è attuata, l’ultima conseguenza dei miglioramenti delle macchine è quasi invariabilmente causa di una maggiore domanda di lavoro” (Babbage, 1835, pag. 335).
Secondo lui, tale effetto positivo derivava dall’aumento della domanda legato alla riduzione dei prezzi.
Fu un antesignano del profit-sharing e della partecipazione della manodopera alle decisioni riguardanti la produzione per scongiurare il pericolo della disoccupazione.

Knut Wicksell, grande economista svedese, anch’egli fautore della teoria della compensazione, sostenne che fossero i salari (e non i prezzi) a metterla in moto. Egli si basò sulla legge della produttività marginale dei fattori produttivi² .
A causa dell’espulsione di lavoratori per l’attuazione di innovazioni tecniche, l’offerta di lavoro aumenta rispetto alla domanda: ne consegue una diminuzione dei salari. Tale variazione della remunerazione del lavoro rispetto a quella del capitale, stimola la domanda di lavoro, la cui utilizzazione è ora più conveniente proprio nelle produzioni che ancora impiegano metodi produttivi meno innovativi: la disoccupazione generata dal cambiamento tecnologico è per una certa parte riassorbita dalle assunzioni di lavoratori a salario ridotto.
Inoltre, l’abbassamento dei prezzi porta ad un ulteriore ampliamento, prima, della domanda globale, poi, della produzione ed, infine, dell’occupazione.
Ove però vi fosse un’eventuale rigidità dei salari verso il basso, a causa di politiche sindacali o legislative o del rifiuto di singoli individui a lavorare per un salario ritenuto inadeguato, allora si genererebbe disoccupazione, che pertanto non può essere attribuita di per sé al progresso tecnologico.

Nota 1: Charles Babbage, successore di Newton alla cattedra di Matematica di Cambridge, fu un eccellente matematico ed economista. Inventò la prima calcolatrice meccanica.
Nota 2: La legge della produttività marginale, come si vedrà più avanti, ipotizza dati tutti i prezzi dei fattori di produzione, la loro combinazione di “minimo costo” sarà data dalla condizione che i prodotti marginali dei fattori siano proporzionali ai loro prezzi.

1.2.1. I vari meccanismi della compensazione

Dal suo primo esordio, la teoria ha rilevato l’esistenza di forze economiche che possono spontaneamente compensare l’iniziale diminuzione dell’occupazione, dovuta al progresso tecnico. Sono stati identificati sei tipi di meccanismi di compensazione (Vivarelli – Pianta, 2000), di cui ne abbiamo già analizzati due. Il primo meccanismo di compensazione visto è quello che viene realizzato “via diminuzione dei prezzi”: è la posizione generale propria della teoria neoclassica. Si sostiene che, da una parte, le innovazioni spiazzino i lavoratori e che, dall’altra, esse portino la diminuzione dei costi unitari e dei prezzi ed, in seguito, l’aumento della domanda, della produzione e dell’occupazione. Il secondo meccanismo di compensazione è quello proposto da Wicksell “via diminuzione dei salari”: l’effetto negativo diretto delle tecnologie risparmiatrici di lavoro sull’occupazione, può essere compensato positivamente da una diminuzione dei salari, che induca l’adozione di tecniche di produzione intensive di lavoro. Un terzo meccanismo di compensazione è quello conosciuto col nome “via nuove macchine”: le stesse innovazioni che spiazzano i lavoratori nelle industrie che le introducono, creano nuova occupazione nei settori primari, in cui tali macchinari vengono prodotti. Il quarto meccanismo che permette la compensazione è a noi noto come “via reinvestimento dei profitti” o “via nuovi investimenti”: se la riduzione dei costi dovuta al progresso tecnico non è completamente trasferita sui prezzi, le imprese innovatrici accumulano extraprofitti, che se reinvestiti portano all’aumento della produzione e generano nuovi posti di lavoro. Il quinto modo per compensare l’occupazione persa col progresso è detto “via incremento dei redditi¹ ” : l’aumento della produttività, legato all’introduzione delle nuove tecnologie, è trasferito su salari più alti, stimola il consumo, la produzione e l’occupazione, tanto da poter anche compensare le iniziali perdite di lavoro. Il sesto ed ultimo meccanismo di compensazione a noi manifesto è quello “via nuovi prodotti”: il cambiamento tecnologico non equivale sempre a innovazioni di processo, può anche assumere la forma della creazione e commercializzazione di nuovi prodotti, caso in cui si sviluppano nuovi settori economici e nuovi posti di lavoro. Naturalmente, tutti questi meccanismi possono funzionare in tutto o in parte, secondo le diverse circostanze. In questa ottica, non ha più senso né il filone pessimista, basato sulla paura che le attuali forme di compensazione abbiano indebolito la correlazione positiva tra crescita e occupazione, né il filone ottimista, secondo il quale esiste realmente nel lungo periodo una compensazione dei posti di lavoro, che sono stati persi a causa del progresso tecnico nel breve. Infatti, gli effetti durevoli del cambiamento tecnologico non possono essere dedotti né dall’iniziale licenziamento dei lavoratori dovuto all’innovazione labour-saving della tradizione pessimista, né dalle acute osservazioni basate sull’evidenza aggregata o microeconomica di quella ottimista.
In conclusione, un atteggiamento aperto è un punto di partenza essenziale per lo studio della relazione tra cambiamento tecnologico ed occupazione.

1.2.2. Produttività marginali e tecniche di produzione

Hicks scrive che un imprenditore che debba scegliere tra due tecniche produttive sceglierà quella meno costosa e, in seguito, aggiunge anche “la legge della produttività marginale ci dice che, ipotizzando dati tutti i prezzi dei fattori di produzione, la loro combinazione di “minimo costo” sarà data dalla condizione che i prodotti marginali dei fattori siano proporzionali ai loro prezzi” (Hicks, 1936).

Tabella 1.1 – Il meccanismo di scelta della tecnica produttiva secondo i neoclassici.

 grafico1
La tabella 1.1 descrive il meccanismo di scelta di una tecnica produttiva sostenuto dai neoclassici.
L’imprenditore valuterà il rapporto tra produttività marginale e prezzo del lavoro comparativamente a quello del capitale.
Pertanto, si passerà dalla tecnica a alla tecnica b, quando si ha una situazione in cui:

grafico2

In conclusione, si dovrebbe abbandonare la tecnica a, quando un aumento del salario (w), a parità di produttività marginale del lavoro (Pmg N) oppure una diminuzione di questa produttività, a parità di salario, induca l’imprenditore a modificare la tecnica produttiva verso un relativo maggior uso di capitale (tecnica b).
Secondo Marshall, questi movimenti si potranno verificare soltanto nel lungo periodo, in relazione ad un’eventuale variazione dello stock di capitale disponibile (Marshall, 1920).
In ogni caso, può essere proprio un mutamento delle tecniche a ripercuotersi su produttività dei fattori, prezzi relativi e quantità richieste. In proposito, Wicksell precisa che il macchinario può alterare le produttività marginali dei fattori e, quindi, le loro quote di divisione del prodotto (Wicksell, 1950).

Nota 1: Tale meccanismo, in contrasto con quello via diminuzione dei salari, è stato proposto da Keynes e Kaldor.

1.3. Dal breve periodo di Keynes alle teorie schumpeteriane dell’innovazione

Nella Teoria Generale dell’Occupazione, dell’Interesse e della Moneta (1936) John Maynard Keynes¹ non esaminò direttamente il problema degli investimenti volti all’introduzione delle nuove tecnologie.
Egli non afferrò il ruolo da esse svolto nell’incrementare l’efficienza marginale del capitale.
Questo stupisce specialmente perché sei anni prima nel Trattato della Moneta (1930) Keynes aveva accettato inequivocabilmente la spiegazione data da Schumpeter sulle principali origini degli investimenti nelle società capitalistiche.
E’ in questa opera che Keynes sostiene che “gli imprenditori sono indotti o dissuasi ad imbarcarsi nella produzione di capitale fisso dalle aspettative sul profitto che ne deriverà.”
Quel che meraviglia è che né Keynes, né i keynesiani abbiano dato seguito al riconoscimento del ruolo determinante dell’innovazione tecnica.
Nella Teoria regredì ad una posizione in cui trascurava la tecnologia, la considerava come data, proprio mentre presentava un concetto molto artificiale quale quello del declino secolare dell’efficienza marginale del capitale, staccandolo completamente dai reali cambiamenti tecnici o dalla composizione dei capitali.
In conformità a tale affermazione, per i keynesiani divenne indifferente quali fossero le nuove tecnologie e le industrie a più rapida crescita.
Da qui scaturì il punto principale dell’obiezione di Schumpeter².

Al contrario di Keynes e dei neoclassici, ma conformemente a quanto affermato da Marx, il progresso tecnologico è nel pensiero di Schumpeter al centro delle dinamiche del nostro sistema economico. Mentre per i primi, la crescita si limita ad accompagnare l’emergere di nuove industrie e tecnologie, per questo autore il sistema è trainato da tali innovazioni e dalla loro diffusione.
La rilevanza dell’opera di Schumpeter consiste nell’aver proposto una teoria del mutamento economico nel tempo.
Partendo dai comportamenti di ogni produttore, innovatore o meno, egli elaborò una teoria dell’innovazione a livello di impresa.
Per innovazione l’economista intende più forme di cambiamento: l’introduzione di nuovi prodotti, l’innovazione dei processi (cambiamenti nella tecnologia per produrre beni già commercializzati), l’apertura di nuovi mercati o di nuove fonti di approvvigionamento, la taylorizzazione³ del lavoro, un impiego migliore delle materie prime od anche nuove forme di organizzazione commerciale (Schumpeter, 1939). Per innovazione tecnologica Schumpeter fa riferimento direttamente al mutamento nelle tecniche di produzione. Schumpeter ritiene l’innovazione il tratto distintivo della società capitalistica, quello che lo differenzia da una situazione di “equilibrio stazionario”.
Nel suo schema teorico, l’autore introduce ben quattro importanti ipotesi: nella prima, le innovazioni comportano la costruzione di nuovi impianti e attrezzature e richiedono un notevole dispendio di tempo e denaro.
Nella seconda ipotesi, Schumpeter sostiene che prima di introdurre le innovazioni non esiste concretamente alcuna risorsa inutilizzata dal processo produttivo.
La terza ipotesi è quella secondo cui le innovazioni sono incorporate in “nuove” imprese, che si pongono accanto alle “vecchie”, generando all’interno dell’industria una lotta di concorrenza, dovuta all’abbassamento delle curve di costo totale unitario, dato proprio dal progresso tecnologico.
Più precisamente, sono le innovazioni che abbassano le curve dei costi medi e provocano la lotta tra le imprese e lo sconvolgimento dell’esistente struttura industriale. In Capitalismo, socialismo e democrazia (1943) l’autore dice che “la concorrenza creata dalla nuova merce, dalla nuova tecnica, dalla nuova fonte di approvvigionamento, dal nuovo tipo organizzativo…condiziona un vantaggio decisivo di costo e di qualità” (pag. 80).
Nella sua quarta ipotesi, Schumpeter sostiene che gli imprenditori siano degli “uomini nuovi”4 che realizzano concretamente le innovazioni. Nella Teoria dello sviluppo economico (1912) egli definisce imprenditore chiunque “introduca una nuova combinazione”.
Gli imprenditori non formano una classe sociale, la loro non è una professione e neanche una condizione durevole.
La loro identità è strettamente collegata all’agire innovativo e cessa quando tale forma di agire si esaurisce.
La capacità di innovare dell’imprenditore è remunerata dal profitto, che gli spetta giacché è il frutto della sua azione creatrice. Esso “è l’espressione del valore del contributo dell’imprenditore alla produzione” (Schumpeter, 1912).
Con l’ipotesi degli “uomini nuovi” si spiega perché le innovazioni non vengano introdotte contemporaneamente da tutte le imprese, ma lo siano solo da alcune (le “nuove” imprese) e poi successivamente, passando attraverso una fase di imitazione, si diffondano a tutta la struttura produttiva.
Ciò avviene perché innovare non è semplice, in quanto l’ambiente circostante pone una certa resistenza di fronte alle novità, mentre accetta con benevolenza neutrale la ripetizione di atti consueti. Di qui, la genialità e la rilevanza del contributo dell’imprenditore innovatore. In conclusione, Schumpeter pone l’imprenditorialità come unico elemento attivo del processo di sviluppo; essa è incarnata dalla figura dell’imprenditore innovatore e riduce ogni altra figura sociale ad un ruolo subordinato nel processo di evoluzione del sistema.
Poste le ipotesi, esaminiamo dunque la teoria del mutamento economico. Per costruire il nuovo impianto ed introdurre moderni macchinari (che ordina alle imprese esistenti), l’imprenditore si fa prestare i fondi necessari dai capitalisti.
La via dell’innovazione è più semplice, altri imprenditori decidono di adottare tecniche di produzione più intensive di capitale.
Dato che inizialmente non esistono risorse inutilizzate, i prezzi dei fattori di produzione (salario nominale e tasso di interesse) aumentano per l’incremento della domanda.
Quando le nuove merci della prima azienda entrano nel mercato, esse sono acquistate proprio al prezzo cui l’imprenditore sperava di venderle: iniziano a comparire i profitti. Le nuove imprese entrano in funzione l’una dopo l’altra e incrementano la produzione totale dei beni di consumo, la quale era stata in precedenza diminuita per produrre gli impianti ed i macchinari. Si ha così quello squilibrio che stimola il processo di riorganizzazione di tutta l’industria: le imprese esistenti iniziano un doloroso processo di modernizzazione e di razionalizzazione.
Finché sorgono però nuove imprese, che riversano il loro flusso di spesa nel sistema, vengono compensati gli effetti negativi dell’innovazione (ovvero la disoccupazione da ristrutturazione).
In conclusione, Schumpeter afferma che il mezzo principale di riassorbimento di questo tipo di disoccupazione è la spesa dell’imprenditore, che si riduce man mano che i nuovi prodotti entrano nel mercato ed i rimborsi dei debiti contratti inizialmente aumentano. Ciò porta ad una “zona di equilibrio” da cui ripartirà l’attività imprenditoriale. Da tutta la teoria del mutamento economico, risulta chiaro come Schumpeter vedesse il processo innovativo come forza squilibratrice del sistema economico, anziché come un tipo di trasformazione uniforme ed incessante.
Egli giustificò formalmente a tre livelli questa sua visione. Innanzi tutto, le innovazioni tendono a concentrarsi quasi esclusivamente in alcuni settori chiave e nell’ambiente loro circostante. Ne risultano asimmetrie e disarmonie, le quali causano problemi di aggiustamento strutturale tra i diversi settori di ciascuna economia in crescita.
Secondo poi, il processo di diffusione rappresenta il mezzo attraverso il quale le innovazioni generano le maggiori sorgenti di investimento e di crescita del prodotto. Il suo andamento è intrinsecamente irregolare con caratteri di ciclicità. Infatti, in genere il lancio di un nuovo prodotto è caratterizzato spesso da un avvio lento, ma di solito seguito da una rapida crescita, dovuta ad un certo “effetto di trascinamento” sugli imitatori.
Infine, le aspettative di profitto cambiano durante il periodo di crescita, visto che il processo di imitazione erode i margini di profitto degli innovatori. La saturazione del mercato fa ridurre la produzione, la redditività e la forza di attrazione di altri investimenti.
Fondamentalmente, le innovazioni costituiscono l’elemento di trasformazione organica dell’industria.
Esse stravolgono incessantemente e dall’interno le strutture economiche distruggendo il vecchio e creando il nuovo.
L’innovazione genera maggior produzione sociale, la stessa somma totale di redditi nominali, un minor livello dei prezzi (il mutamento economico è innescato dalla variazione dei prezzi, non da quella dei salari nominali).
E’ evidente che i risultati di lungo periodo dello sforzo innovativo sono stati trasferiti sui consumatori sotto forma di un incremento del reddito reale. Insomma, innovare ha un effetto netto positivo sul sistema economico in termini di maggiore benessere. A questo proposito, in Capitalismo, Socialismo, Democrazia afferma che: “Il processo capitalistico, …in virtù del suo stesso meccanismo, determina un progressivo aumento del livello di vita delle masse…comunque” (Schumpeter, 1943). Schumpeter mise in evidenza il fatto che il progresso tecnico consista nella creazione di nuovi prodotti ed industrie, cioè in ciò che egli definì propriamente “distruzione creatrice”. Essa elimina posti di lavoro nelle vecchie industrie e ne crea nelle nuove. “Questo meccanismo di distruzione creatrice è il fatto essenziale del capitalismo, quello in cui il capitalismo consiste” (Schumpeter, 1977, pag. 79).
Per Schumpeter, il processo di mutamento economico del sistema consiste nella reiterazione sistematica di due fasi di ragguardevole peso: la prima, la fase di prosperità, vede l’allontanamento da una posizione di equilibrio per la sollecitazione dell’attività innovatrice dell’imprenditore, mentre la seconda, che è conosciuta come fase di recessione, consta nell’avvicinamento del sistema ad un’altra posizione di equilibrio. Entrambi gli stadi sono frutto di due tendenze contrapposte e connaturate al capitalismo, che sono la lotta di concorrenza e la concorrenza perfetta.
Nella prima fase, la concorrenza, generata dall’agire innovativo, squilibra il sistema e genera i profitti, producendo una fase di prosperità ciclica, caratterizzata a livello occupazionale quasi dalla piena occupazione. Invece, nella seconda fase, la concorrenza è perfetta ed è fondata sull’agire razionale di tipo imitativo.
Essa apre una fase di staticizzazione, che tende a riportare il sistema verso l’equilibrio stazionario, mediante la perequazione dei profitti ed il loro progressivo azzeramento.
In questa seconda fase, pur se in perfetta concorrenza, pur se all’inizio del processo di mutamento economico tutte le risorse produttive erano utilizzate, vi è disoccupazione.
Un simile fenomeno di squilibrio del mercato del lavoro è esternato da Schumpeter in tal modo: “La nostra impresa, quasi necessariamente si trova in posizione imperfetta, anche se il sistema per gli altri aspetti è perfettamente concorrenziale” (Schumpeter, 1939, pag. 135).
Egli afferma che il comportamento dei soggetti economici è contraddistinto da incertezza anche in regime di concorrenza perfetta, dal momento che la realtà cambia incessantemente e questo costituisce un elemento interno di indeterminatezza. Conseguenza diretta di ciò è che paradossalmente il sistema è più vicino all’equilibrio, laddove esso è fortemente squilibrato dagli effetti del progresso tecnologico, piuttosto che nella fase di depressione, quando vi sono concorrenza perfetta e disoccupazione.
Chiaramente, Schumpeter attribuì l’emergere della disoccupazione alle trasformazioni tecnologiche. Tuttavia, poiché le invenzioni rilevanti avvengono ad intervalli ciclici, anche le fasi di ascesa degli investimenti avverranno a intervalli di tempo periodici: ne risultano fluttuazioni cicliche dell’andamento dello sviluppo economico e, quindi, dell’occupazione “ciclica”. A questo punto risulta chiaro che, per Schumpeter, la disoccupazione ciclica e quella tecnologica coincidano.
Precisamente a questo riguardo, egli poté sostenere con autorevolezza: “La disoccupazione tecnologica…, collegandosi…con l’innovazione, è per sua natura ciclica. Nelle nostre analisi storiche, …i periodi prolungati di disoccupazione sopra la media coincidono con i periodi in cui i risultati delle invenzioni si diffondono nel sistema…come negli anni venti ed ottanta del diciannovesimo secolo” (Schumpeter, 1939)5.
Schumpeter si riferisce a quegli anni, poiché guardava il fenomeno occupazionale con riferimento a lunghi cicli (di mezzo secolo), che egli cita come ” cicli di Kondrat’ev6″ . Schumpeter li ricollega col cambiamento tecnico, visto che il processo di diffusione di ogni nuova importante tecnologia richiede addirittura alcuni decenni per realizzarsi.
Secondo Schumpeter, i cicli lunghi erano un succedersi di trasformazioni tecnologiche7 del sistema economico, che necessitavano di quel profondo cambiamento strutturale che era dato dalla distruzione creatrice, tramite quelle che egli definisce “successive rivoluzioni industriali”.
La diffusione delle nuove tecnologie potrebbe spiegare le onde lunghe dello sviluppo economico, se tali innovazioni avessero un impatto sconvolgente sull’intero sistema.
Kondrat’ev suggerì che dovessero essere imponenti e richiedere copiosi tempi di diffusione (come l’elettricità o la ferrovia) per poter trasmettere all’economia una spinta verso l’alto.
Naturalmente, oltre ai loro effetti diretti, le innovazioni influenzerebbero le aspettative e le opportunità di quasi tutti i settori.
Infine, la questione che Schumpeter si pone è se la politica economica possa risolvere i problemi occupazionali del sistema.
Egli ritiene che la disoccupazione ciclica sia un elemento costitutivo ineliminabile del processo di sviluppo e che, quindi, possa soltanto essere considerata come un costo sociale di cui l’intera società debba semmai farsi carico.
Un elevato tasso di disoccupazione segue le fasi di prosperità nei periodi di adattamento, pertanto è sostanzialmente un evento passeggero. Comunque, temporanea o permanente, la disoccupazione è vissuta come un flagello in ogni caso.
La gravità del fenomeno è data dall’impossibilità di provvedere adeguatamente ai disoccupati, senza danneggiare le premesse di un ulteriore sviluppo economico.
Le soluzioni proposte da Schumpeter al problema sono a favore di facilitazioni della mobilità professionale e territoriale (la quale, se assente, può generare disoccupazione, almeno nel breve periodo), e di un piano di intervento a sostegno del popolo dei senza lavoro, attraverso un uso adeguato delle risorse eccedenti che lo sviluppo capitalistico libera.

Secondo quanto messo in luce nelle varie opere schumpeteriane, si andava via via affermando la convinzione che le trasformazioni legate alle nuove tecnologie, generando un incremento della produttività del lavoro, tendevano a ridurre la quantità di lavoro necessaria a produrre un’unità di output.
Gregory, in un articolo del 1930, sostenne altresì che le “imperfezioni” del mercato e le condizioni tecnologiche determinassero una certa quantità di disoccupazione permanente. Perciò, nell’analisi della disoccupazione tecnologica, si aprì, accanto alla tradizionale ipotesi della compensazione, una nuova strada che contemplava l’idea della disoccupazione strutturale.
Emil Lederer8 (1931) sviluppò le idee di Schumpeter, mostrando la ferma volontà di chiudere con la teoria della compensazione, ritenuta di un certo rilievo soltanto in un’ottica statica, per affrontare un’analisi dinamica della relazione intercorrente tra progresso tecnico e occupazione.
Egli approfondì particolarmente il concetto di disoccupazione strutturale per i suoi forti legami con l’andamento del progresso tecnico, ponendo l’accento specificatamente sulla distinzione tra imprese statiche ed imprese innovative.
Le ondate di progresso tecnico determinano effetti diversi su di esse: nelle imprese statiche, si ha un rallentamento della crescita della produzione, dell’occupazione e del capitale, contemporaneamente nelle imprese innovative (che sostituiscono capitale a lavoro), si riscontra una riduzione dell’occupazione: è per questo che nel sistema produttivo si crea disoccupazione (Palmerio, 1987).
A chiudere idealmente il dibattito degli anni trenta sulla disoccupazione tecnologica fu Hansen9 nel 1932. Egli ribadì nel contesto della teoria neoclassica, centrata sulla sostituibilità dei fattori produttivi e sull’importanza dei meccanismi di mercato, che “le innovazioni tecnologiche disturbano il corretto meccanismo di determinazione dei prezzi dei fattori di produzione. …Un sistema flessibile tra salario e tassi di interesse ed un aumento dei nuovi investimenti sono gli strumenti principali attraverso cui il lavoro, spiazzato dalle innovazioni tecnologiche, è…riassorbito” (Hansen, 1932, pp. 27-29).
Posto in tale ottica, il problema della disoccupazione tecnologica non ha più alcun senso: essa è sostituita da un concetto di disoccupazione frizionale. Infatti, Hansen concede molto all’interferenza di impedimenti di natura istituzionale ed al malfunzionamento dei mercati.

Nota 1: John Maynard Keynes (1883 – 1946) fu uno dei più influenti economisti di tutti i tempi. Fu uno dei primi autori che sostennero la necessità dell’intervento statale mediante apposite misure per contrastare la depressione, contrariamente a quanto fino allora era stato affermato dalla teoria del laissez-faire.
Nota 2: Joseph Alois Schumpeter (1883 – 1950) fu un noto economista austriaco della prima metà del 1900. Egli arguì che la crescita in un’economia di imprese private era dovuta ai profitti attesi dagli imprenditori.
Nota 3: Il taylorismo fu un movimento per l’organizzazione scientifica del lavoro (scientific management) nato alla fine del XIX secolo per opera di Frederick Winslow Taylor. Si basava su tre principi cardine: il primo prevedeva l’osservazione sistematica dei movimenti degli operai, la rilevazione cronometrica e la classificazione statistica dei tempi impiegati, al fine di poter stabilire l’one best way (l’unico modo migliore) per compiere un’operazione lavorativa ed il tempo ottimale ad essa necessario. Il secondo principio sosteneva l’intervento della direzione nell’attività lavorativa dell’operaio per dettarne le modalità. Il terzo principio vedeva la sistematica espropriazione del sapere operaio al fine di trasferirlo negli uffici di direzione e progettazione. La proposta di Taylor si presentava come un’iniziativa diretta a render compatibile la manodopera, recalcitrante all’introduzione delle macchine, con le nuove tecnologie necessarie alla produzione di massa. Essa non vi riuscì, ne nacque un’aspra lotta sindacale. La taylorizzazione del lavoro aprì la via alla catena di montaggio ed al fordismo di Henry Ford, il “re dell’auto”.
Nota 4: Schumpeter con tale espressione probabilmente si riferiva agli homines novi dell’antica società romana. Questi non nascevano da famiglie note per aver rivestito particolari cariche, non avevano un illustre albero genealogico da mostrare come credenziale, ma si distinguevano per le loro particolari doti di eloquenza e di capacità politica. Erano uomini come Catone il Censore, Caio Mario e Cicerone, i quali sono stati personalmente artefici del proprio destino. Per Schumpeter, l’imprenditore è un vero homo novo, che ha creato da solo un’invenzione e la ha sviluppata nella sua azienda. Soltanto in seguito, egli è stato imitato dalle altre imprese.
Nota 5: Citato in Freeman – Soete, 1994, pag. 36.
Nota 6: Kondrat’ev fu un economista russo, direttore dell’Istituto di Ricerca Economica di Mosca. Negli anni venti, descrisse i cicli occupazionali che portano il suo nome. Precedentemente van Gelderen ne aveva già parlato nel 1913 in un’opera scritta soltanto in olandese e, pertanto, sconosciuta sia a Schumpeter che a Kondrat’ev.
Nota 7: Come sostenuto da Rosenberg (1976), il processo di diffusione non permette di replicare uguale a se stesso il nuovo prodotto, ma sottintende (oltre al suo perfezionamento) miglioramenti dei processi, dei componenti, dei sottosistemi, delle materie prime e dei metodi di gestione.
Nota 8: Emil Lederer fu un economista tedesco, conosciuto per la pubblicazione dell’opera Progresso tecnico e disoccupazione. Il libro ebbe una discreta eco nel mondo accademico, ma fu stroncato duramente da Kaldor nel 1932.
Nota 9: Alvin Harvey Hansen (1887 – 1975), economista americano, che riteneva che una depressione economica come quella degli anni Trenta potesse essere prevenuta solo con l’intervento pubblico a favore del pieno impiego. Tra le sue proposte vi fu anche una maggiore spesa governativa per scuole, ospedali e strade. I suoi suggerimenti furono applicati nell’Employment Act del 1946.

1.4. Studi teorici recenti

In tempi più recenti, Carlota Perez (1983) ha supposto che le “fasi di prosperità” abbiano luogo quando si realizza un “felice incontro” tra le nuove tecnologie di un’onda lunga ed il quadro istituzionale.
Viceversa, secondo il suo pensiero, le depressioni rappresentano periodi di scollamento tra le tecniche di produzione emergenti e le istituzioni. L’estesa generalizzazione delle nuove tecnologie è possibile soltanto in seguito ad un periodo di adattamento delle istituzioni sociali alle caratteristiche ed alle potenzialità delle nuove tecniche.
La Perez rileva che Schumpeter riconobbe tardivamente la necessità di politiche governative che affrontassero le depressioni e, per giunta, in termini molto generici. Addirittura, egli prese una posizione per lo più ostile rispetto alla teoria keynesiana.
Secondo la Perez, il mancato incontro tra il quadro istituzionale e gli eccezionali vantaggi in termini di costi e di produttività fornisce l’impulso a cercare le riforme sociali e politiche per superare la crisi.
In ogni caso, i tempi richiesti saranno lunghi, perché è necessario il mutamento del sistema educativo e formativo, delle strutture amministrative ed aziendali, dei mercati dei capitali, dei sistemi finanziari, del tipo di investimenti, delle leggi, della politica e del commercio a livello nazionale ed internazionale. E’ pertanto fondamentale l’intervento pubblico.
Anche la scuola francese di economisti interventisti ha evidenziato la rilevanza di periodi di mutamento istituzionale per un allineamento con i mutamenti strutturali. In particolare, Boyer (1989) ha insistito sulla capacità di innovazione istituzionale di ogni Paese. Vi è la necessità di cambiare i metodi di gestione, le relazioni industriali e le politiche del lavoro per ottenere un grado di investimenti sufficiente ad un nuovo livello di sviluppo economico e tecnico.

Nel 1981 Pasinetti pubblicò il suo Structural Change and Economic Growth, un saggio di teoria economica sull’evoluzione di lungo periodo del sistema industriale, costruendo un modello dinamico multisettoriale.
Analizziamone le implicazioni, in presenza di progresso tecnico, sul mutamento strutturale della produzione e dell’occupazione, sul cambiamento della composizione della domanda (dato dal mutamento nei gusti e nelle preferenze dei consumatori) e su di una popolazione crescente.
Vediamo quali sono le tre novità caratteristiche del modello qui proposto.
In primo luogo, Pasinetti costruisce un modello disaggregato a più settori, che considera le differenti variazioni della produttività nei diversi rami dell’economia. Questo approccio analitico è ben diverso dai tradizionali, classici o keynesiani che siano.
In secondo luogo, definisce il concetto di integrazione verticale del processo produttivo, come il fenomeno per mezzo del quale ogni fattore è fatto diventare input di lavoro o servizio reso da stocks di beni capitali, senza fasi transitorie. In tal modo, Pasinetti consente lo svolgimento di un’analisi dinamica, partendo da uno schema input-output, considerando anche il progresso tecnico.
Infine, egli sviluppa il suo studio secondo quel tipo di indagine che i classici definivano “naturale”, perché talmente fondamentale da essere avulsa dalla situazione istituzionale della società.
Per l’autore, lo schema dei neoclassici (basato sul principio della massimizzazione sotto dati vincoli) è inadeguato a raffigurare una moderna società industriale, nella quale il progresso tecnologico muta continuamente tutti i dati.
Il concetto di industria è al centro dell’opera, è di tipo dinamico ed implica la produzione e, quindi, un incessante processo di apprendimento (che fa variare nel tempo le grandezze economiche): proprio in questo consiste il progresso tecnico per Pasinetti.
Questa acquisizione continua di know how è il fondamento di tutto il sistema, poiché punta al miglioramento sia dei processi, sia dei prodotti. In sostanza, è il lavoro umano l’artefice principale della produzione, da cui possono essere prodotti tutti beni possibili.
Prima di descrivere il suo modello, Pasinetti considera alcune ipotesi.
In primis, definisce il suo schema analitico di pura produzione, sulla quale egli principalmente si sofferma. Il modello è dominato dal processo di apprendimento degli individui, sia per quel che riguarda i miglioramenti nella tecnica produttiva, sia per ciò che concerne l’evoluzione nelle preferenze di consumo.
A tal proposito, la seconda ipotesi vede il sistema economico rappresentato da un modello autarchico, in cui si ravvisano soltanto due attività: una di produzione ed una di consumo.
In terzo luogo, nel modello si considerano solo le merci prodotte finali: così tutti i processi produttivi sono rappresentati come verticalmente integrati, vale a dire che tutti i fattori sono ridotti ad inputs di lavoro od a servizi forniti da stocks di beni capitali, senza stadi intermedi.
La quarta ipotesi assicura che il progresso tecnico è tale da richiedere in ogni processo produttivo la divisione del lavoro ed una marcata specializzazione. In ogni momento, il sistema ha una propria struttura tecnica, rappresentata da una serie di funzioni di produzione, ciascuna delle quali esprime la fabbricazione di ogni singolo bene come funzione tecnica dei vari inputs fisici (lavoro, beni capitali, merci intermedie…).
In quinto luogo va rilevato che la singola tecnica al momento in funzione è l’unica importante, essa in un dato momento non può essere mutata. Solo nel lungo periodo è possibile cambiare la struttura tecnologica, quando con la sostituzione dei beni capitali usurati si scelgono nuovi metodi di produzione.
In sesto luogo, il modello assume che in ciascun periodo ed in ogni settore una proporzione costante della capacità produttiva svanisca in seguito alla sua utilizzazione.
Infine, lo studio in esame è rivolto all’analisi di produzione ed occupazione, le quali mutano struttura al variare della domanda, che è endogena, mentre popolazione, conoscenze tecnologiche e modelli di consumo sono esogeni.
In particolare, la popolazione del sistema fornisce i flussi di lavoro ai vari processi produttivi e detiene gli stocks di beni capitali. Inoltre, esprime la domanda di beni finali, sia di consumo sia di investimento.

Dopo aver considerato le ipotesi, si passi ora ad analizzare il modello. Pasinetti assume che il sistema economico al tempo iniziale sia in equilibrio: la domanda globale genera esattamente quel volume di produzione che richiede la piena occupazione della forza lavoro esistente e la capacità produttiva dei vari settori è pienamente utilizzata.
Sostiene poi che col passare del tempo le produttivit๠dei diversi settori mutino (per l’introduzione del progresso tecnico), che la domanda pro-capite vari (per un cambiamento delle preferenze dei consumatori, scaturito dall’esistenza dei nuovi prodotti) e che la popolazione aumenti: pertanto, per mantenere il sistema in equilibrio di piena occupazione nel tempo, occorre soddisfare due condizioni.
Innanzitutto, visto che la popolazione e la tecnologia mutano, il sistema deve espandere di continuo la sua produzione per poter stare al passo con gli aumenti della domanda pro-capite e con quelli della forza lavoro.
In secondo luogo, va soddisfatta la condizione macroeconomica della domanda effettiva, la quale prevede che la domanda aumenti in misura esattamente proporzionale alla crescita della produttività. Se così non fosse, il sistema genererebbe disoccupazione.
Il modello mostra che il mantenimento della piena occupazione nel tempo non è un fatto endogeno e non si realizza automaticamente.
Al contrario, il sistema economico tende alla disoccupazione tecnologica, perché generalmente la domanda varia in misura meno che proporzionale alla crescita del reddito e non può crescere incessantemente, poiché ciascun bene ha un grado di saturazione nel consumo.
Tuttavia, esistono due fattori che operano nel lungo periodo e che riescono a compensare quegli effetti negativi delle dinamiche del sistema economico sull’occupazione.
Primo fattore è per l’appunto il progresso tecnico che, incrementando i settori produttori di nuovi beni, stimola la crescita della domanda effettiva.
Il secondo fattore è legato all’uso della forza lavoro, con la diminuzione degli attivi sulla popolazione totale e/o con la riduzione del tempo di durata della settimana lavorativa.
Eppure, persino se la condizione macroeconomica della domanda fosse sempre soddisfatta, in media la metà dei settori genererebbe disoccupazione tecnologica col passare del tempo, mentre l’altra metà riassorbirebbe la disoccupazione creata dai settori in cui la crescita della domanda pro-capite è minore di quella della produttività.
Pertanto, se si vuole mantenere l’equilibrio macroeconomico, l’occupazione richiede una forte mobilità intersettoriale della forza lavoro.
Ove la popolazione crescesse, l’equilibrio potrebbe esser favorito dal pre-pensionamento di alcuni dei lavoratori più anziani nei settori in declino, se la domanda fosse ristagnante o in contrazione, ed anche dall’immissione di giovani nei settori in espansione. Inoltre, l’aumento degli abitanti porta con sé un ampliamento della domanda di tutti i beni.
D’altra parte, è la crescita della produttività a generare disoccupazione tecnologica.
L’effetto complessivo di queste variabili è di far variare l’intera struttura dell’occupazione, in altre parole le proporzioni nelle quali i lavoratori sono distribuiti tra i diversi settori dell’economia.
Si possono proporre tre considerazioni conclusive riguardo alla dinamica strutturale della produzione e dell’occupazione, in presenza di progresso tecnico.
La prima è che gli operatori sono costretti a prendere decisioni sempre nuove per indirizzare il sistema verso l’equilibrio: non possono affidarsi a meccanismi di autoregolamentazione del sistema, perché tali meccanismi non operano nella direzione auspicata. Esiste un problema di politica industriale dell’innovazione tecnologica. La seconda considerazione è che la soddisfazione della condizione macroeconomica di equilibrio di piena occupazione non serve a mantenere l’equilibrio dinamico.
Si pone quindi un problema di politica dell’occupazione, visto che la dinamica del sistema richiede una redistribuzione dell’occupazione tra i vari settori in base all’evoluzione della tecnologia e della domanda.
L’ultima considerazione riguarda l’assunzione implicita di una data struttura dei prezzi e da una data distribuzione del reddito, alle cui variazioni la domanda è sensibile.
Inoltre, nel modello il saggio di profitto influenza la scelta della tecnica ed il saggio di salario influisce sul grado di meccanizzazione dei processi produttivi, cioè il rapporto capitale/lavoro.
In conclusione, Pasinetti suggerisce che il progresso tecnico è di tipo labour-saving e che, pertanto, i suoi effetti consistono sia in un aumento dei salari reali nel lungo periodo, sia in una necessaria redistribuzione dell’occupazione verso produzioni nuove e tradizionali, che hanno una domanda in espansione e/o si risolvono in una diversa distribuzione del tempo lavorativo sull’intera forza lavoro (Schilirò, 1984).
Secondo Sylos Labini, le invenzioni dipendono da molti fattori, alcuni esogeni (come sostenuto dalla maggior parte degli economisti), altri endogeni al sistema economico (Sylos Labini, 1991).

L’autore definisce endogene quelle invenzioni che sono generate da motivazioni prettamente economiche. Sappiamo che per tradursi in innovazione, un’invenzione deve passare il vaglio dell’economicità (in pratica deve essere profittevole), ma questo non significa che tutte le invenzioni vadano definite endogene.
Definisce, invece, esogene quelle invenzioni, grandi idee, colpi di genio che provengono dal progresso intellettuale, dal progresso scientifico disinteressato e/o da spinte di tipo pubblico (ad esempio, militari o civili).
Queste possono anche essere invenzioni potenziali del passato, ora attuate. In particolare, l’autore rileva che a volte le piccole innovazioni, spesso adattamenti, perfezionamenti delle grandi, portano avanti lo sviluppo economico, anche più di queste ultime.
Sylos Labini nota anche come certi elementi stimolino l’immissione di innovazioni nei processi, in primo luogo, la crescita della domanda reale. Più essa è veloce, più è probabile che nella produzione siano introdotte le ultime innovazioni (sia tecniche, sia organizzative) proposte sul mercato.
Altro stimolo all’introduzione di innovazioni è l’andamento dei costi. Quando i costi aumentano, serve compensare tale incremento, accrescendo l’efficienza dei fattori produttivi impiegati, riorganizzando le industrie con innovazioni tecniche o di gestione. In tal senso, il capitalismo industriale è in un processo continuo di ristrutturazione. In ultimo luogo, anche la presenza di forti conflitti sociali può spingere ad un incremento dell’utilizzo delle macchine nella produzione.
La politica pubblica della ricerca può unificare le tre spinte; essa viene effettuata da tutti governi, anche da quelli critici riguardo agli interventi pubblici nell’economia, i quali piuttosto che agire direttamente mediante laboratori pubblici, danno incentivi fiscali e creditizi, aiutano con contratti, commesse ed una politica legislativa dei brevetti e delle licenze.
In conclusione, per Sylos Labini i legami tra innovazione ed occupazione appaiono alquanto complessi: contano la rapidità dell’incremento dell’offerta di lavoro, del reddito nazionale (dal quale ha origine la domanda di lavoro) e della produttività (che dipende proprio dalle innovazioni tecnologiche e organizzative). Quindi, da una parte, le innovazioni possono generare disoccupazione, secondo la rapidità dell’incremento del reddito.
Dall’altra, l’aumento della forza lavoro può far aumentare la disoccupazione, anche se non vengono espulsi lavoratori né per effetto di innovazioni, né per altre motivazioni.

Naturalmente, al dibattito sul rapporto tra progresso tecnico ed occupazione hanno partecipato numerosi autori, ma si è ritenuto in questa sede di proporre in merito soltanto il pensiero dei più significativi.

Nota 1: Per Pasinetti, il progresso tecnico si manifesta non solo attraverso gli incrementi della produttività, ma anche con l’aumento del numero dei settori.

1.5. Confronti e dibattiti

Da questa breve rassegna delle teorie preclassica, classica, neoclassica, keynesiana, schumpeteriana ed attuale su cambiamento tecnico ed occupazione, per tutti è evidente che l’adeguamento dell’occupazione al cambiamento tecnico non si realizza in modo istantaneo ed automatico. Esistono in ogni caso difficoltà di adeguamento e di disoccupazione strutturale notevolmente acute. Le differenze tra queste scuole risiedono nella stima della rapidità e della regolarità degli aggiustamenti e nella rilevanza relativa di ciascun meccanismo di compensazione.
Da una parte, vi è il modello endogeno autoregolantesi, equilibratore del mercato, fondato sulla legge di Say.
In una posizione intermedia, la teoria keynesiana afferma che, comunque, in tale modello deve venire riconosciuta la presenza di “scricchiolii e cigolii”.
All’altro estremo, si trovano le teorie di Perez e Boyer. Essi ritengono che gli aggiustamenti si realizzino solo grazie a cambiamenti sociali e politici, adatti alle caratteristiche delle nuove tecnologie.
In ogni caso, queste teorie possono essere compatibili in un certo modo.
Molti neoclassici riconoscono l’importanza del cambiamento istituzionale e tecnico, come Olson (1982), che ha sviluppato una teoria delle rigidità istituzionali. Inoltre, tutti ammetterebbero l’esistenza di disparità territoriali e di altri fattori (quali la concorrenza ed il commercio internazionale), che potrebbero incrementare la gravità dei problemi strutturali.
Il vero discriminante tra le varie scuole di pensiero economico è l’incertezza sulla velocità degli aggiustamenti.
Esiste, quindi, un’enorme variabilità delle previsioni sui futuri livelli di occupazione, a seconda che queste siano elaborazioni di stampo keynesiano, neoclassico o di altro tipo.
Casi a parte sono il modello di Pasinetti e la teoria di Sylos Labini. Pasinetti costruisce un modello dinamico disaggregato multisettoriale, considerando le variazioni della produttività nei vari rami dell’economia.
Il suo approccio analitico è diverso dai tradizionali. Inoltre, definisce quel concetto nuovo che è l’integrazione verticale del processo produttivo.
Sylos Labini si concentra su temi diversi, originali, la natura endogena od esogena delle innovazioni rispetto al sistema economico. In particolare poi, analizza anche i fattori che stimolano l’utilizzo di macchinari nel processo produttivo. Durante il ventesimo secolo, si sono avute due ampie oscillazioni nei giudizi convenzionali sulla disoccupazione.
Si è passati dalla visione relativamente ottimista dell’inizio del secolo ad una profondamente pessimista degli anni Trenta, per tornare ad un grande ottimismo negli anni Cinquanta ed ancora ad un profondo pessimismo negli ultimi due decenni del secolo. Sembra che il pensiero degli economisti sulla possibilità di raggiungere ridotti tassi di disoccupazione sia notevolmente influenzato dall’andamento della crescita del decennio precedente a quello preso in considerazione. Samuelson (1981) scrisse amaramente: “La mia ponderata congettura è che il quarto conclusivo del XX secolo andrà a finire molto indietro al terzo quarto per ciò che riguarda il reale tasso di progresso economico.
Il cupo oroscopo del mio vecchio maestro Joseph Schumpeter potrebbe avere un particolare rilievo in questo caso¹”. Il riferimento a Schumpeter ci ricorda che è meglio tentare di spiegare le fluttuazioni dell’andamento del ciclo economico nel lungo periodo, piuttosto che nel breve. Nel proseguo, per capire le fluttuazioni di lungo periodo della disoccupazione (che hanno investito tutti i paesi industrializzati nel secolo passato), si considereranno l’ascesa delle nuove tecnologie, il declino o lo sviluppo di interi settori, i nuovi investimenti infrastrutturali, gli spostamenti della dislocazione internazionale delle industrie e della leadership tecnologica, elementi che furono introdotti nel dibattito per la prima volta da Schumpeter e da Kondrat’ev.

grafico3

Nota 1: Citato in Freeman e Soete (1994).

2°: L'ICT e l'Occupazione

2.0. Introduzione

In questo secondo capitolo, si intende definire il nuovo paradigma legato alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) ed il fenomeno occupazionale nei tre grandi blocchi occidentali, con particolare riguardo a quella parte di esso legata all’introduzione di nuovi macchinari nel processo produttivo.
Nel primo paragrafo, si definirà e si studieranno i vantaggi e le caratteristiche del nuovo paradigma dell’ICT, confrontandolo anche col precedente modello fordista. Inoltre, si presenterà brevemente una cronologia della sua diffusione.
Nel secondo paragrafo, si analizzerà la situazione attuale, valutando le principali tendenze e l’incertezza che riguardano sia la situazione economica generale, sia specificatamente le vicende relative al settore dell’ICT.
Nel terzo paragrafo, si approfondirà il tema della rilocalizzazione internazionale delle attività manifatturiere tradizionali e della crescita della produttività (verso i Paesi in via di sviluppo), legata all’ICT, come un elemento che può causare disoccupazione tecnologica. Inoltre, si vedrà come il commercio estero e la concorrenza internazionale cambino in funzione della diffusione delle nuove tecnologie. Nel quarto paragrafo, si tratterà dei vari tipi di flessibilità: salariale, organizzativa e professionale e nel quinto si introdurranno le nuove figure professionali più richieste sul web. Infine, nel sesto si affronterà la situazione occupazionale del settore e si formuleranno delle ipotesi sulle prospettive per il prossimo anno.

2.1. Le caratteristiche del nuovo paradigma tecnoeconomico

Secondo la definizione di Freeman e Soete (1994), l’ICT (Information Comunication Technology) è “un nuovo paradigma tecnoeconomico riguardante la progettazione, la gestione ed il controllo dei sistemi di produzione di beni e servizi in tutta l’economia, basato su un insieme interconnesso di radicali innovazioni nei computer, nel software, nei sistemi di controllo, nei circuiti integrati e nelle telecomunicazioni, che hanno consentito una drastica riduzione dei costi di archiviazione, elaborazione, trasmissione e distribuzione di informazioni” (Freeman e Soete, 1994, pag. 47).
Il paradigma ICT viene definito tecnoeconomico, in quanto la tecnologia innovativa di cui dispone riesce a diffondersi nell’economia di mercato, fornendo benefici sia di tipo tecnico, sia di tipo economico.
Introdurre un paradigma tecnoeconomico innovativo significa utilizzare una nuova filosofia di produzione e progettazione. Il pieno godimento dei suoi benefici economici e sociali, incluso lo sviluppo dell’occupazione, dipende da un processo di sperimentazioni sociali e di apprendimento, ancora nella sua fase iniziale. La penetrazione dell’ICT riguarda tutti i settori e i servizi, i loro legami e le caratteristiche delle diverse società industriali. L’introduzione di tecnologie completamente nuove porta con sé molti cambiamenti sociali ed istituzionali, tra cui quelli del modello occupazionale e delle qualifiche professionali. All’estremo, George Gilder (1993) in un suo articolo sull’Economist sostiene che i cambiamenti tecnici stimoleranno quelli istituzionali.
Il quadro socio-istituzionale ereditato dal passato a volte non è stato correttamente adattato alle potenzialità delle nuove tecnologie, ostacolando il processo di creazione di posti di lavoro e l’aumento della produttività.
Ad esempio, cinquant’anni fa, si sarebbe difficilmente immaginata la diffusione degli elettrodomestici in tutte le case italiane ed, ancor più, l’incremento dell’occupazione verificatosi nelle industrie che li producevano.
Allo stesso modo, al momento risulta complesso prevedere i futuri modelli di produzione e di fornitura di servizi tra mezzo secolo. Ciò nonostante, solo una prospettiva di lungo periodo può evitare quella scarsità di immaginazione, che vede nel progresso tecnico soltanto una riduzione del volume degli occupati.

La scelta dello sviluppo, della definizione e dell’applicazione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione fu fortemente influenzata dai vantaggi che esse permettono di trarre dalla competizione, dalla loro profittabilità attesa e dal potenziale risparmio di tempo che consentono.
I principali tipi di vantaggi che l’utilizzo dell’ICT porta con sé possono essere suddivisi in cinque categorie: la prima riguarda la rapidità e la precisione con cui le informazioni sono elaborate e trasmesse.
Proprio questo vantaggio è stato il motivo centrale che portò lo sviluppo delle calcolatrici. La seconda investe la capacità di archiviazione di un’enorme quantità di dati. La terza categoria fa riferimento alla flessibilità nell’organizzazione della produzione, della progettazione, della commercializzazione e dell’amministrazione.
La quarta ci parla del collegamento in rete con e tra imprese, individui ed organizzazioni. Infine, l’ultima concerne il reperimento di informazioni.
Nel 1840, quando l’economista Charles Babbage realizzò la prima calcolatrice, egli non aveva a disposizione una tecnologia valida che ne permettesse il successo commerciale, poiché mancava la rapidità e la precisione di elaborazione e trasmissione delle informazioni. Solamente negli anni Quaranta del Novecento, si fu in grado di realizzare il suo sogno con la creazione di macchine elettroniche di grande velocità e capacità di memoria.
I restanti vantaggi che i sistemi computerizzati attualmente offrono, si manifestarono solo durante il processo di diffusione, rivelando la nascita di un modello di nuovo sviluppo imprenditoriale, in conflitto con il vecchio paradigma proprio del fordismo. Si propone qui di seguito uno schema semplificato di confronto tra i due paradigmi.

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Inizialmente, il computer non era una tecnologia dominante, per sopravvivere dovette lottare contro tecnologie e sistemi profondamente differenti. Si riteneva che non vi sarebbe mai stato un livello di domanda elevato per tali macchine: il loro futuro riguardava solo applicazioni statali, militari e scientifiche. Le difficoltà furono elevate, ma già da allora, i computer dimostrarono tutti i loro vantaggi tecnici.
Negli anni Cinquanta, i computer si inserirono nelle strutture gerarchiche delle grandi imprese, soprattutto per il risparmio di tempo nell’immagazzinamento e nella elaborazione delle informazioni in applicazioni standardizzate, che essi permettevano.
Il risparmio di tempo è l’elemento chiave, ha avuto un ruolo determinante nella diffusione dell’ICT: la rapidità di elaborazione dei dati è cresciuta esponenzialmente.
Le sue applicazioni riguardano molti aspetti: l’integrazione (tramite reti telematiche interne all’impresa) dei programmi di produzione e della gestione degli stocks con gli acquisti ed i fornitori, l’utilizzo dell’elettronica nel design con l’utilizzo del CAD (che ha portato con sé un pronto disbrigo del lavoro negli “uffici progettazione”), l’introduzione di magazzini computerizzati e di sistemi di controllo inventariale, capaci di affrontare rapidamente variazioni anche diarie della domanda.
Tutte queste innovazioni portarono la conseguente riduzione del lead-time¹ per i nuovi prodotti e processi, una maggiore flessibilità del product mix e dei programmi di subappalto, più rapidità nello svolgimento delle pratiche di ufficio, un miglioramento nelle consegne alla catena distributiva, nonché risparmi nelle scorte.
Dagli anni Sessanta ad oggi, il boom dei circuiti integrati, ha permesso di raggiungere il numero di parecchi milioni di componenti collocati in un chip. Rapide innovazioni nel design e nel product mix furono logiche conseguenze, che diventarono così caratteristiche distintive dell’industria elettronica.
Negli anni Ottanta emersero la velocità, la capacità di memoria, la flessibilità e l’integrabilità in Rete. Fu in tal modo che i cambiamenti organizzativi e quelli tecnici si legarono indissolubilmente. Sistemi flessibili di produzione (FMS e “sistematizzazione”) e produzione integrata dal computer (CIM) diventarono la regola, sostituendo la diffusione di singoli pezzi.
Per tutti gli anni Novanta, pc e microprocessori hanno visto il loro grande trionfo. Senza dubbio, il software e l’informatica hanno costituito uno dei settori a più rapido sviluppo dell’ultimo decennio ed, inoltre, l’aumento dell’occupazione è stato molto elevato.
Attualmente, la risposta del marketing ai mutamenti della domanda dei consumatori e la fornitura di servizi sempre nuovi (come tele-shopping, tele-banking, teleconferenze e telelavoro) sono, di certo, in forte sviluppo.
Va aggiunto che il successo è stato raggiunto solo per mezzo del coinvolgimento degli utenti finali nel cambiamento tecnico, organizzativo e formativo.
L’élite delle imprese che sono riuscite in questa attività ha potuto raccogliere grandi benefici di flessibilità, e conseguentemente economie di scopo, qualità, immagine dei prodotti, personalizzazione del design e rapide reazioni ai mutamenti del mercato.

Nota 1: Per lead-time si intende il periodo di assestamento necessario ad un nuovo prodotto o processo per divenire dominante in tutto il sistema.

2.2. Tendenze in atto: l’incertezza tra crisi e riprese del settore

La nascita e l’estensione di un nuovo paradigma (quale quello dell’ICT) implicano sempre un processo lungo e difficile di continua revisione sia per le aziende grandi, sia per le piccole, intensificando la concorrenza e spiazzando o costringendo a mutare procedure e istituzioni antiquate.
In tal senso, si possono costatare due fenomeni contrari: mentre, in alcune industrie relative alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, le piccole e medie imprese (PMI) fioriscono e le grandi aziende stanno spesso riducendo le loro dimensioni, in altre, ci si riconcentra ed è in corso un’ondata di fusioni.
Questi andamenti sono tipici di un periodo di assestamento strutturale del nuovo paradigma, che vede molte imprese tagliare la forza lavoro ed effettuare cambiamenti strutturali.
Dal punto di vista occupazionale, va rilevato che tutti questi mutamenti e la globalizzazione delle rapide innovazioni tecniche ed organizzative hanno generato conseguenze drammatiche nelle strutture industriali e manageriali delle aziende.
Le società maggiori (con gerarchie e dipartimenti più corposi) si sono trovate a fronteggiare le difficoltà più gravi: infatti, con la disponibilità dei dati fornita dalle reti di elaboratori, i quadri intermedi sono spesso scomparsi. Inoltre, il maggior decentramento delle modalità di produzione verso aziende minori (outsourcing) ha aumentato la spinta al down-sizing¹ , riducendo ulteriormente la presenza di dirigenti intermedi nell’impresa.
L’andamento delle PMI diventerà sempre più rilevante ai fini dell’ampliamento dell’occupazione, in quanto saranno loro a consentire l’aggiustamento occupazionale partito dai piani di ristrutturazione delle grandi aziende.
Secondo Affari & Finanza (A&F) del 2 luglio 2001, era già in corso una forte frenata delle vendite di hardware e software, specialmente negli USA, che aveva costretto i colossi del settore hi-tech a pesanti piani di ristrutturazione.
Era tornata in voga la regola aurea del mondo del pc, la legge di Moore, secondo la quale, all’aumentare della potenza di elaborazione corrisponde un taglio dei prezzi. Attualmente, essa è un vero obbligo per le imprese dato il periodo di notevole rallentamento dell’economia, che nel mondo dell’ICT è divenuto quasi panico.
Di recente, le aspettative di crescita sembrano affrontare una fase negativa: se negli anni ’80 il sistema produttivo più dinamico dei Paesi sviluppati era quello del Giappone, negli anni ’90 esso ha iniziato ad attraversare una crisi dalla quale non si è ancora ripreso, anche per quel che riguarda il settore ICT (A&F, 3 settembre 2001, pp. 10 – 11).
L’economia giapponese sta vedendo rallentare le esportazioni, diminuire la produzione, fermare i consumi ed, inoltre, il Paese è sepolto da una quantità di debiti pari a cinque volte il suo prodotto lordo. Insomma, il Giappone è colpito da deflazione (al 2%), recessione e disoccupazione (al 5%).
Va specificato che quasi 1.000.000 di lavoratori nipponici ha perso il posto di lavoro negli ultimi mesi, eppure solo 120.000 sono registrati come disoccupati. Il vero tasso di disoccupazione sfiora il 10%. Per reagire, infatti, le imprese hanno dovuto prendere l’unico provvedimento possibile, ridurre il carico di dipendenti.
In particolare, l’arresto generalizzato dei consumi ha portato in pochi giorni ad una raffica di tagli occupazionali: 19.000 alla Toshiba (entro il 2004), 16.000 alla Fujitsu, 4.000 alla Nec, 14.000 all’Hitachi, la maggior parte nel settore delle “memorie” degli elaboratori elettronici. Poi la crisi ha colpito più a fondo: la Kyocera, maggior produttrice di guaine in ceramica per la protezione dei semiconduttori, ha tagliato 10.000 posti (il 20% del suo organico), mentre l’Oki, che fa apparati per le telecomunicazioni licenzierà 2.200 addetti (il 10% del totale). Inevitabilmente, è scattata la corsa al consolidamento del settore. Si cerca di inventare fusioni, sperando che col lancio di Windows XP aumentino le necessità di memoria dei computer.
Attualmente, “il calo delle vendite è tale che gli stabilimenti marciano a non più del 60% di potenza, i costi produttivi sono oggi il doppio dei prezzi di vendita ed i prezzi stessi sono scesi fino al 90% nell’ultimo anno: un chip che si vendeva a 9,47 dollari…oggi si trova in media a 2,92. Se nel 2000 il mercato complessivo è stato di 29 miliardi di dollari, quest’anno non si supereranno i 12” (A&F, 3 settembre 2001, pag. 11).
La sola possibilità di scongiurare la catastrofe è realizzare i necessari interventi strutturali straordinari del governo per l’economia e l’occupazione.

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Fonte: nostra elaborazione www.studioeidos.com

Come se non bastasse, l’attentato dell’11 settembre alle Twin Towers di New York ha generato un clima di sfiducia e di aspettative negative e l’economia dei tre grandi blocchi occidentali (Stati Uniti, Europa e Giappone), che già attraversava una fase di rallentamento, si trova ora a scongiurare ormai ciò che è inevitabile: la recessione globale.
Ci si chiede quali saranno le ripercussioni della guerra che gli Stati Uniti stanno combattendo contro il terrorismo: gli esperti ritengono che l’effetto immediato della guerra sarà quello di ritardare ulteriormente il recupero di chi fa business on-line.
Per i giganti di Internet, le ricadute dell’attacco sono state pesanti, ma in Borsa, a distanza di un mese, gli indici hanno sostanzialmente recuperato i livelli precedenti all’attacco terroristico (A&F, 15 ottobre 2001, pag. 4).
Per alcuni, si teme una potenziale contrazione degli introiti pubblicitari nel breve termine ed a cascata tagli sul personale, aumenti sui costi di alcuni servizi e la ricerca affannosa di nuovi introiti che sostituiscano quelli pubblicitari.
Per altri, la guerra dovrebbe aumentare gli investimenti pubblicitari nei servizi di news in televisione e radio, come durante la Guerra del Golfo. Ma, il fatto è che la pubblicità on-line era già in crisi da diversi mesi: si teme che si verifichi un fenomeno causa-effetto quale quello meno pubblicità-meno acquisti on ed off-line.
Di qui, altri licenziamenti in AOL sia in Europa, sia in America Latina (A&F, 1° ottobre 2001, pag. 8).
Al 5 ottobre 2001, secondo la Federcomin² la televisione si conferma il mezzo di comunicazione che attira la quota più ampia degli investimenti pubblicitari: nel 2000 ha raccolto circa il 58% del totale, pari a oltre 7 miliardi di Euro, seguita dalla stampa (34%) e dalla radio (5%). Nei primi cinque mesi di quest’anno, dal confronto con lo stesso periodo del 2000, emerge una sostanziale stabilità degli spot TV, mentre si riduce sensibilmente la raccolta delle radio (-9,9%).
In Italia sono quasi 21 milioni le famiglie dotate di un TV color, quasi 3 milioni le famiglie con un’apparecchiatura di ricezione satellitare, 3 milioni le unità residenziali cablate. Il numero di abbonati alla Pay-Tv nel nostro Paese non raggiungono ancora i 3 milioni (sono quasi 11 milioni in Francia, quasi 14 nel Regno Unito, quasi 25 in Germania).
Le previsioni per il 2001 confermano una crescita in tutti i Paesi, trainata principalmente dalla piattaforma satellitare e dai servizi via cavo.
I ricavi derivanti dai servizi di Pay-Tv ammontano in Italia, secondo le previsioni del 2001, a poco meno di 650 milioni di euro (quasi 3 miliardi e mezzo di euro in Francia e quasi 5 in Francia e Germania).
L’andamento del mercato italiano dei servizi di telefonia fissa è caratterizzato da due fenomeni principali: l’aumento dei volumi di traffico e la diminuzione dei prezzi al minuto sulle principali direttrici, che conduce alla discesa dei ricavi degli operatori. I dati del 2000 mostrano una crescita del 15,7% nei minuti di collegamento – dovuti principalmente allo sviluppo dei servizi online – e un calo del 4,7% nel fatturato derivante dalle telefonate.
La diffusione delle linee a larga banda in Italia sta aumentando rapidamente e secondo le stime all’inizio del mese di settembre di quest’anno le connessioni a “larga banda” (xDSL e collegamenti in fibra ottica) hanno raggiunto un totale di circa 340.000 utenti.
Alla fine del primo semestre dell’anno in corso si segnala una crescita del 8% del numero di possessori di telefoni cellulari rispetto a fine 2000 (in Italia sono circa 45 milioni e mezzo alla fine del primo semestre 2001). La crescita percentuale del numero di utenti SMS, nel corso del 2000, è stata pari al 177%, per un totale di oltre 14,3 milioni di users, divenuti circa 18,7 milioni secondo le stime del secondo semestre 2001.
Sulla base di queste indicazioni, quindi, alla fine del primo semestre 2001 circa il 41% dei possessori di telefono cellulare è anche utilizzatore dei servizi SMS.
Paul Krugman³ (A&F, 8 ottobre 2001, pp. 2 – 4), il quale afferma che Bin Laden ha “colpito i centri nervosi del capitalismo globale”, sostiene che per comprendere quei rischi economici che si potrebbero dover affrontare in futuro vanno capiti a fondo i motivi della crisi che era già precedente all’11 settembre.
Inizialmente, Krugman spiega come un’economia possa essere colpita in due modi: può diminuire l’offerta o la domanda. In ogni caso, l’attacco non interferirà con la capacità dell’economia statunitense di produrre, mentre potrebbe indurre la gente a non spendere e le industrie non troverebbero più acquirenti.
Si genererebbe una crisi della domanda che porterebbe alla depressione dell’economia, a causa di una questione psicologica: tutto dipenderà dai “sentimenti” dei consumatori, dai loro animal spirits, come li chiamava Keynes. A proposito, Krugman afferma che “la sola cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa”.
Gli Stati moderni dispongono di potenti armi contro il rallentamento dell’economia: la politica monetaria (la banca centrale può ridurre i tassi di interesse per convincere imprese e consumatori a chiedere prestiti e spendere, cosa che crea nuova occupazione ed aumenta il consumo) e la politica fiscale (con cui il governo può favorire la domanda, abbassando le tasse o innalzando la spesa pubblica).
Dagli anni ’30 ad oggi, la prima ha sempre funzionato, tra l’altro risollevando gli USA dalle tre recessioni degli ultimi trent’anni, nel 1975, 1982 e 1991.
A volte ha operato anche troppo bene, in quanto induce spesso i Paesi che la adottano a perseguire politiche di crescita del prodotto e dell’occupazione troppo elevate, producendo, quindi, inflazione4 . Secondo alcuni economisti, il secondo tipo di politica, quella fiscale, non è necessario per affrontare la maggior parte delle recessioni.
Krugman parla della crisi giapponese e dell’importanza dell’intervento statale per tentare di evitarla, purtroppo queste politiche non hanno prodotto risultati definitivi concreti: i tassi a breve sono stati ridotti a zero (ma non vi sono stati segnali né di inflazione, né di ripresa: si parla di trappola della liquidità) ed un’ingente spesa in disavanzo ha permesso al Paese di rimanere a galla, rallentando la discesa dell’economia (benché non ne abbia invertito la tendenza di lungo periodo).
A riguardo, “il Giappone ha utilizzato grandiosi progetti di opere pubbliche per creare occupazione e pompare denaro nell’economia”.
Tuttavia, si è registrato un forte aumento dei fallimenti, nella patria del posto di lavoro a vita e del convoy sistem5 .
Negli USA i terroristi hanno provocato indirettamente un rilancio dell’economia, producendo politiche monetarie e fiscali espansionistiche, anche se l’economia statunitense gonfiata, i problemi del Giappone, l’impatto psicologico dell’attacco potrebbero portare ad uno stato prolungato di stagnazione. Krugman conclude che “perché le cose cambino realmente occorre una leadership efficace che riconosca la gravità della situazione, non rinunci ad agire per il timore di ripercussioni politiche…che sia preparata ad esplorare rimedi non ortodossi qualora le soluzioni tradizionali si rivelino inutili”.
Nonostante tutte le difficoltà del momento e le ristrutturazioni, l’Information Comunication Technology ha rappresentato nell’ultimo decennio l’attività col maggior saggio di crescita mondiale sia nella produzione, sia nel consumo, sia nell’occupazione. Inoltre, ha registrato il massimo aumento della produttività del capitale e del lavoro. Anche se la determinazione della produttività del software è particolarmente complessa, lo studio di Lichtenberg (1993) dimostra che gli investimenti in computerizzazione hanno portato ritorni straordinariamente alti: oggi è ancora così, anche se si riferiscono in modo particolare ad Internet.
Al 1° ottobre 2001 troviamo che il direttore generale della Velodea scrive: “Internet è viva. E’ la new economy che è morta, almeno il modello visto fino ad oggi” e poi aggiunge: “E’ vero la maggior parte dei portali votati all’e-commerce sono falliti, ma è anche vero che oggi venti milioni di americani (dati PhoCus Wright Research 2001) acquistano i biglietti aerei direttamente on-line e i viaggi in generale sono diventati la categoria top-selling sulla Rete…Secondo una ricerca di Jupiter Media Metrix, il 29% (dei teen-ager) utilizza Internet per trovare informazioni sui prodotti che acquisterà off-line …La popolazione adulta della Rete è in netta crescita (+18% ad aprile 2001) …La riconversione sta partendo dagli Stati Uniti” (A&F, 1° ottobre 2001, pag. 10).
Dunque, si parla di riconversione, mentre al 23 luglio si sosteneva che: “Tutta la new economy è in crisi, ma l’e-commerce è più in crisi di tutto. Ariba, leader delle soluzioni per il B2B6 , sprofonda in un mare di perdite…dopo un write-off di 70 milioni di dollari in ristrutturazioni e tagli occupazionali” (A&F, 23 luglio, pag. 9).

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Fonte: nostra elaborazione studio èidos

Il 5 ottobre 2001 Federcomin ha presentato il secondo numero dell'”Osservatorio Federcomin sul mercato ICT”, con cui si vogliono mettere a fuoco gli scenari di competitività in cui opera l’Italia della net-economy.
Sono stati diffusi i dati relativi ai principali trend italiani ed internazionali relativi al mercato ICT, a seguito dei recenti drammatici avvenimenti americani. Secondo questa ricerca di mercato, sono possibili due scenari circa l’andamento del mercato dell’Information Technology (IT) in Europa: il primo, più probabile, vede una crescita al 7,9% nel 2001 ed all’8,5% l’anno prossimo. Il secondo scenario è meno favorevole, ma, comunque, ipotizza un trend positivo, sia nel 2001 che nel 2002 (rispettivamente 7,4% e 6,5%).
Le previsioni per il settore ICT in Europa hanno un andamento positivo, anche se non come nel 2000 (13,0 %) o nel 2001 (11,0%): la crescita prevista per il 2002 si colloca all’8,9%.
Il mercato italiano dell’IT è stato pari nel 2000 a 19,59 miliardi di euro, con un incremento dell’11,7% sull’anno precedente.
La crescita è stata trainata da tutti e tre i comparti principali: hardware (11,5%), software (10,2%) e servizi (12,4%).
Le stime per il 2001 (11,3%) indicano una crescita del mercato a tassi di poco inferiori a quelli del 2000 (11,7%), e sono leggermente più elevate per il 2002 (11,6%), con una maggiore spinta proveniente dai segmenti software e servizi, che compensano parzialmente l’atteso rallentamento del comparto hardware.
In ogni caso, la migrazione delle aziende verso Internet proseguirà a ritmi molto elevati, principalmente perché la Rete è un ottimo strumento per tagliare costi ed ottimizzare i processi. Di qui, un’accesissima battaglia tra i produttori di pc sulla tecnologia e sui prezzi, come sostenuto dalla ormai nota legge di Moore.
E’ importante rilevare che occupazione e produttività vanno in direzioni contrarie soltanto nei settori maturi o in declino, vale a dire che un notevole incremento della produttività determina una diminuzione dell’occupazione solamente in settori come, ad esempio, l’agricoltura e l’attività estrattiva.
Invece, nei settori in crescita (come l’ICT), la nascita di nuovi prodotti e servizi genera un “circolo virtuoso”, dato da notevole incremento del reddito, dell’occupazione ed anche della produttività: questi si sviluppano assieme e si intensificano a vicenda.

Nota 1: Con tale espressione si intende la riduzione del grado delle qualifiche del personale di una azienda.
Nota 2: Federcomin è la Federazione di Confindustria, che raggruppa circa 1.000 aziende di telecomunicazioni, radiotelevisione ed informatica. Tali dati sono stati tratti dal sito www.wayvision.net.
Nota 3: Paul Krugman è uno dei migliori economisti americani ed uno straordinario divulgatore. Egli collabora regolarmente col New York Times, inoltre, ha pubblicato vari libri. Questa citazione è tratta dal suo saggio “L’economia della paura”, apparso integralmente sul numero citato di Affari & Finanza.
Nota 4: Per evitare che i governi puntino ai vantaggi politici della crescita nel breve periodo, trascurando i costi inflativi della politica monetaria nel lungo, tutti i Paesi sviluppati hanno banche centrali indipendenti rispetto all’influenza di altri organi governativi.
Nota 5: Per convoy system si intende un sistema grazie a cui le imprese più forti aiutano le più deboli.
Nota 6: La sigla B2B significa business-to-business, essa indica le transazioni commerciali via Internet tra aziende e fornitori. Altre sigle simili sono B2C (business-to-consumer, riguardo alle transazioni di vendita tra imprese e consumatori finali) e B2E (business-to-employee, nel quale le informazioni circolano tra tutti i dipendenti dell’azienda).

2.3. I cambiamenti strutturali, lo sviluppo dell’occupazione e la rilocalizzazione internazionale

Attualmente, si sta verificando un processo internazionale di rilocalizzazione produttiva delle attività manifatturiere tradizionali (Wood, 1994), cui si aggiunge, grazie all’Information Comunication Technology, un’ulteriore internazionalizzazione di attività di servizio, precedentemente non trasferibili. Di conseguenza, l’emergere e l’ulteriore espandersi dell’ICT genera nuova occupazione, ma questa è più probabile che si crei in paesi lontani da quelli di origine delle nuove tecnologie.
Il timore di disoccupazione tecnologica nei paesi sviluppati, derivante dalla maggiore estensione del paradigma ICT, è legato a due fenomeni: da una parte, alla crescita generalizzata della produttività e, dall’altra, al trasferimento di molte attività ripetitive di produzione e di servizi verso regioni e Paesi a basso costo del lavoro.
Per quel che riguarda il primo punto, si può dire che nell’Unione Europea (U.E.) la crescita della produttività è stata abbastanza decisa. Essa può essere conseguenza di molte cause: può dipendere dagli spostamenti tra i vari settori (in particolare, quelli tra l’industria ed i servizi), oppure dalle modifiche nelle mansioni e nelle competenze, nella competitività e nelle possibilità di sviluppo od anche dalla creazione di occupazione in nuovi servizi hi-tech (di cui alcuni potrebbero subire trasferimenti internazionali, mentre altri no). Infine, essa può essere legata a posizioni generiche ad alta remunerazione e qualificazione.
E’ vero che l’aumento della produttività porta tendenzialmente una diminuzione dei posti di lavoro, tuttavia è molto importante capire se esso generi una variazione dell’occupazione altrove, al fine di un serio e costruttivo dibattito politico.
Dato che un rallentamento della crescita della produttività (specialmente per lo sviluppo economico dell’U.E.) non è di fatto sufficiente ad incrementare il numero degli occupati, è opportuno guardare in profondità i cambiamenti strutturali dell’economia, in particolare quelli derivanti dall’innovazione tecnica.
Riguardo al secondo punto, ci riferiamo alla rilocalizzazione produttiva, la nascita dell’U.E. (in senso economico e monetario) ha reso i politici del nostro Paese più consapevoli delle implicazioni internazionali delle loro scelte.
Sono il cambiamento strutturale internazionale, che ha provocato nuovi scambi tra il Nord e il Sud dell’Europa e del mondo, e la rilocalizzazione produttiva di alcune attività nei Paesi in via di sviluppo a mettere in discussione automatismi salariali e capacità di creare occupazione nelle economie caratterizzate da alto costo del lavoro.
Negli ultimi due decenni, si è realizzato un generale spostamento dell’occupazione dall’agricoltura e dall’industria ai servizi nella maggior parte dei Paesi del mondo. In particolare, nei Paesi sviluppati il terziario risulta di gran lunga la principale fonte di occupazione.
Analizziamone le cause. Parte del declino dell’occupazione industriale è dovuta al subappalto di attività, prima eseguite all’interno del settore. Inoltre, durante ogni processo di crescita hanno luogo delle transizioni strutturali, vale a dire continui spostamenti dell’occupazione da un settore all’altro, legati alle complesse interrelazioni tra tecnologia e domanda. La tecnologia porterà con sé una maggiore efficienza nella produzione agricola ed industriale, riducendo l’occupazione, solo se l’incremento di prodotto non compenserà quello della produttività, grazie all’elasticità dei prezzi e dei redditi. Un’insufficiente compensazione avviene per i prodotti alimentari ed i beni di consumo di base, secondo quanto affermato dalla legge di Engel¹ , i cui effetti congiuntamente al miglioramento tecnico causano il costante declino dell’occupazione agricola nel lungo periodo.
La crescita occupazionale nei settori industriali ad elevata remunerazione del lavoro ed ad alta tecnologia, invece, deriva dalla forte e continua espansione del prodotto interno ed estero, che ha più che bilanciato gli incrementi di produttività in questi settori. Al contrario, la crescita dell’occupazione (nel settore finanziario ed in quello dei servizi alla persona) ha corrisposto ad aumenti minimi della produttività, poiché frutto di una veloce espansione del prodotto interno. Si prevedono poi ulteriori licenziamenti nel settore finanziario, a causa della maggiore efficienza e trasferibilità che l’ICT porterà a questi servizi.
Certo, un ampliamento della domanda e del prodotto industriale potrebbe aumentare l’occupazione, ma l’incremento di produttività, necessario per rimanere competitivi, potrebbe essere così alto da causare, comunque, un calo occupazionale in qualcuno dei settori considerati.

Svolgiamo ora un’analisi settoriale a livello occupazionale dell’ICT² , e distinguiamo, di conseguenza, essenzialmente sei ambiti: informatica hardware, telecomunicazioni, componenti elettronici, radio e televisione, apparecchi domestici ed illuminazione.
Il primo settore, quello informatico-hardware, riguarda personal computer, macchine per l’automazione di ufficio, apparati per punti vendita e registratori di cassa. Nel primo semestre 2001, il comparto informatico rivela un aumento del fatturato e dell’ordinato. Diminuisce la vendita di personal computer, mentre è stabile quella dei prodotti “assemblati” e delle periferiche. Il totale dei posti di lavoro occupati rimane all’incirca stabile, attestandosi ai livelli di fine 2000. La ripresa potrebbe però, arrivare dai nuovi investimenti e dalle agevolazioni fiscali del governo.
Il settore delle telecomunicazioni concerne le apparecchiature, i sistemi e le reti di telecomunicazione (fisse e mobili) con le relative attività di installazione. Tale settore è cresciuto negli ultimi anni, ma nel primo semestre 2001 ha registrato una leggera flessione del fatturato. Invece, qualche segnale positivo arriva dalle esportazioni e dalle infrastrutture.
L’occupazione è per lo più stabile, anche se con una lieve diminuzione tendenziale.
I componenti elettronici sono i semiconduttori, i circuiti integrati, i componenti attivi, passivi ed elettromeccanici. Il trend di questo settore produttivo, strategico per l’ICT risulta altalenante. Nel primo trimestre 2001 si è registrato un lieve incremento (per l’evasione degli ordini di fine 2000), ma, al contrario, nel secondo si è verificato un rallentamento.
Complessivamente, si registra un leggero aumento dell’occupazione.
Il settore radio-televisivo riguarda la televisione, le antenne, i videoregistratori, le videocamere ed i sistemi audio.
Nel corso del primo semestre 2001, radio, TV ed elettroacustica hanno registrato un calo del loro fatturato: i segmenti più colpiti sono stati quelli delle autoradio, dei TV color e degli hi-fi. Al contrario, sono in crescita gli apparecchi per uso domestico legati alle tecnologie digitali come i lettori DVD, i televisori combinati e le videocamere.
L’occupazione rimane stazionaria con lieve tendenza alla riduzione. Nel quarto settore, oltre a grandi e piccoli elettrodomestici, sono inclusi apparecchi di condizionamento e di riscaldamento ed utensili elettrici. Nel primo semestre si registra una tendenziale crescita del fatturato trainata anche dal buon andamento delle esportazioni. Per ciò che concerne il mercato interno, i segmenti più dinamici sono stati quelli dei congelatori e degli asciugabiancheria, mentre lo sono stati meno i forni a microonde ed i frigoriferi.
L’occupazione è rimasta fondamentalmente stazionaria.
L’ultimo settore ICT è quello che riguarda le sorgenti luminose ed i componenti elettrici ed elettronici per l’illuminazione.
Prosegue il trend positivo, che era stato registrato nel secondo semestre 2000. Da segnalare il buon andamento delle esportazioni.
Tutti i segmenti del comparto (apparecchi, componenti e sorgenti luminose) appaiono in crescita tendenziale.
In termini occupazionali, non si segnalano variazioni di rilievo.
Per concludere, va anche evidenziato che il commercio estero e la concorrenza internazionale sono fonti rilevanti di nuova occupazione e di spostamento geografico di manodopera. Il settore dell’ICT è di gran lunga il più dinamico del commercio mondiale ed, inoltre, sembra avere sui servizi, da un punto di vista internazionale, un effetto di notevole ampliamento degli scambi; in particolare, stimola la trasferibilità dei servizi tradizionalmente sacrificati dalla contiguità geografica o temporale di produzione e consumo.
Quinn (1986), definisce i servizi come quelle attività il cui prodotto è consumato nel momento stesso in cui viene realizzato, come ad esempio, un concerto. In genere, essi sono classificati in base alla loro funzione (come i servizi di distribuzione, o quelli di intermediazione tra le industrie, od anche quelli personali o sociali). L’Information Comunication Technology certamente provoca l’incremento degli scambi tra tutti i settori (primario, secondario, terziario), anche se con intensità differente per ognuno di essi ed, inoltre, consente ad un numero sempre maggiore di servizi, grazie alla nuova dimensione spaziale e/o temporale che offre, di separare produzione e consumo, aumentando ulteriormente la trasferibilità interna ed internazionale.
A causa della maggiore flessibilità e del crescente decentramento resi possibili dalle nuove tecnologie, si può prevedere un’ulteriore riduzione della dimensione geografica spaziale tra produzione e consumo in molti settori industriali.
L’aumento dei costi di trasporto fisico (di prodotti e di persone) confrontato con quello delle informazioni, può portare un avvicinamento delle unità produttive ai mercati di consumo, considerati anche i costi ambientali del trasporto. La rilocalizzazione internazionale, attuata dalle multinazionali verso aree/Paesi dove il costo del lavoro è inferiore, continuerà a provocare rilevanti cali dell’occupazione industriale nei Paesi sviluppati dell’OCSE ad alto costo del lavoro (Freeman e Soete, 1994, pag. 105). Tale tendenza rientra nella logica del commercio internazionale, della nascita dell’azienda globale e della deregulation dei movimenti di capitali (realizzata nel 1992 in Italia).
A muoversi devono essere le autorità amministrative locali: se intendono mantenere nella propria regione le imprese estere, devono creare le condizioni economiche che assicurino alle loro consociate un profondo radicamento nell’economia della zona, così che quest’ultima diventi indispensabile per la loro stessa competitività. Le autorità locali possono, inoltre, erogare sussidi per attirare le aziende straniere o creare condizioni infrastrutturali favorevoli (come corsi di formazione e di aggiornamento, collegamenti con le piccole e medie imprese subappaltatrici locali, collaborazioni con le università, gli istituti tecnici, i laboratori e gli istituti di ricerca della zona), che leghino profondamente le consociate estere alla regione in cui si trovano, ma anche le imprese nazionali.

Nota 1: La legge di Engel sostiene che una quota sempre minore del reddito crescente viene spesa per l’alimentazione.
Nota 2: Questi dati sono tratti dal supplemento del Corriere della sera, il Corriere Lavoro, del 5 ottobre 2001.

2.4. La flessibilità salariale ed organizzativa e la professionalità

Per superare la disoccupazione strutturale è convinzione comune che sia indispensabile la flessibilità nel mercato del lavoro, cui si possono attribuire vari significati. La tradizione classica parla della rilevanza della flessibilità dei salari e della mobilità della manodopera. Invece, gli storici hanno dato rilievo alle migrazioni internazionali ed all’urbanizzazione.
Negli ultimi anni, un effettivo aumento del grado di flessibilità dei rapporti di lavoro ha caratterizzato le politiche dell’occupazione in Italia ed in Europa ed ha portato conseguenze importanti, come la concorrenza dei Paesi a basso salario e l’incremento del livello di partecipazione delle donne in tutti i Paesi industrializzati. Questo è dovuto in parte ai datori di lavoro (che hanno cercato continuamente manodopera a minor costo) ed in parte alle recenti ristrutturazioni organizzative dei processi produttivi (che sono connesse proprio alla massiccia diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione).
Si è già visto che una delle caratteristiche tipiche del paradigma ICT è la flessibilità progettuale, produttiva, commerciale e distributiva dei servizi (che permette di ridurre la mobilità geografica).
Esistono poi altri due importanti tipi di flessibilità: uno legato alle modalità di organizzazione del lavoro e l’altro all’apprendimento di nuove competenze da parte dei lavoratori. Entrambi sono necessari ad affrontare i cambiamenti del product mix e delle tecniche produttive.
Conseguire la flessibilità organizzativa e delle competenze è estremamente più difficile che ottenere quella classica nell’offerta di lavoro: esse, comunque, dipenderanno solo dalle capacità di ciascun Paese di promuovere veloci cambiamenti tecnici ed istituzionali e di innalzare rapidamente le produttività, destinando però i relativi guadagni all’ampliamento dell’occupazione.
La tradizione classica e neoclassica dell’occupazione e del progresso tecnico si basa su vari meccanismi di compensazione per ripristinare l’equilibrio sul mercato del lavoro, bilanciando domanda ed offerta di manodopera.
Il ruolo della flessibilità dei salari e dell’interesse è essenziale, anche se il mercato del lavoro non può essere assimilato agli altri. Comunque, il tema della distribuzione delle quote di profitto è stato sempre fonte di acuti problemi sociali.
Secondo alcuni economisti (Layard e Philpoytt, 1991), per contrastare la disoccupazione di lungo periodo, più della flessibilità sono necessari una forte attenzione all’addestramento, l’obbligo di accettare lavoro o formazione ed anche spinte e stimoli finanziari, sia per il datore di lavoro sia per il disoccupato.
Secondo altri, invece, sia in Nord America sia in Europa, esiste la necessità di ridurre i salari relativi (ed i benefici sociali) ai lavoratori meno qualificati ed ai giovani, poiché si ritiene che sia l’assenza di flessibilità salariale all’ingiù a non ampliare il potenziale di creazione di lavoro a bassa professionalità/basso salario.
Così non è stato nella realtà dove, a causa di una penetrazione più consistente dei prodotti importati, sono proprio i settori a basso salario ad aver maggiormente sofferto del calo occupazionale.
Paradossalmente, quindi, perseguire la flessibilità salariale sembrerebbe volere attuare una politica fondamentalmente protezionista di autarchia. Questa creerebbe un’occupazione di certo superiore a quella persa col calo delle esportazioni verso il resto del mondo, ma produrrebbe un ovvio calo del benessere. Inoltre, la perdita degli stimoli competitivi dinamici, derivanti dalle importazioni, danneggerebbe la crescita e la competitività. Invece, in un mondo aperto, la diminuzione dei salari porterebbe all'”importazione del sottosviluppo¹” (Freeman e Soete, 1994, pp. 120 – 121).
In conclusione, è evidente che gli argomenti a favore di un ribasso dei salari risultano essere sostanzialmente deboli.
Per evitare la disoccupazione, sono indispensabili mutamenti istituzionali che assicurino nel lungo periodo le aspettative positive e la stabilità necessaria nelle relazioni industriali. In questo senso, alla soluzione del ribasso dei salari è senz’altro preferibile un passaggio veloce ad attività altamente qualificate, a forte valore aggiunto, anche se le politiche tipiche per recuperare parte dei profitti durante i cicli negativi si fondano prevalentemente sull’indebolimento (se non addirittura sull’assoluto divieto) dei sindacati.
Tuttavia, questo rischia di diminuire la domanda aggregata di beni di consumo, di aggravare la crisi e la disoccupazione keynesiana.
Oltrepassando la teoria tradizionale della flessibilità salariale, risulta di estrema rilevanza quella organizzativa e dei contratti di lavoro, come anche la qualificazione dei lavoratori² .
In un’economia di mercato, queste possono essere fornite dal subcontracting³ , che consente alle aziende di adeguarsi alle modifiche nella composizione e nei tempi dei nuovi ordini da evadere. Le PMI permettono l’ottenimento della flessibilità: con la loro nascita ed il loro sviluppo, esse sono state riconosciute dappertutto come indispensabili per rinnovare lo sviluppo occupazionale e la flessibilità stessa del sistema.
L’uso dell’ICT ha accentuato la domanda di forme di impiego che non definiscano orari di lavoro standardizzati e che siano accompagnate da minori vincoli contrattuali.
Alcune indagini recentemente svolte dall’Isfol (Colella, 2001)4 consentono di analizzare l’impatto effettivo sul mercato del lavoro italiano del ricorso a lavoro part-time ed a quello a termine.

Grazie al recepimento della Direttiva U.E. n. 81/1997 sul part-time5 , attualmente i contratti con questa modalità contrattuale costituiscono l’8,4% dell’occupazione complessiva.
Nell’anno 2000, quasi un quarto dei nuovi occupati è stato assunto con questa modalità contrattuale. Precedentemente, il 47% di essi era inattivo od in cerca di occupazione, il 28% aveva un contratto a tempo indeterminato, il 9% un contratto a termine ed il 16% un lavoro autonomo.
I dati Isfol mostrano un incremento tendenziale della probabilità di trovare un’occupazione con un lavoro part-time.
Purtroppo, però, diminuisce la probabilità di passare da un contratto a tempo parziale ad uno a tempo pieno.
Studiando gli esiti occupazionali a dodici mesi degli occupati a tempo parziale dell’aprile 1999, si rileva che su 1.600.000 lavoratori, il 16% non ha più un’occupazione, il 58% rimane a part-time, mentre il 25% ottiene un contratto full-time. La media delle ore lavorate è di 30 ore settimanali, con massimi di 36 ore per il 16% degli occupati a tempo parziale.

Riguardo al lavoro a termine, per l’Isfol tra il 2000 ed il 2001 è aumentato solo del 2,8%, perché il lavoro dipendente di questo tipo comprende in sé molti tipi di rapporti: il contratto a tempo determinato propriamente detto6 , l’apprendistato 7, l’interinale8 , il tirocinio9 , il contratto di formazione lavoro (CFL)10 , il job sharing11 ed anche il piano di inserimento professionale (sebbene quest’ultimo non sia un rapporto di lavoro in senso stretto).
La crescita del ricorso all’apprendistato ed ai CFL rivela una consistente battuta di arresto: i primi sono stati oggetto di una riforma “non metabolizzata” dalle imprese, invece, i secondi sono stati “troppo tenuti sotto osservazione” dagli organi di controllo comunitari. L’interinale è decollato, ma la sua incidenza sul lavoro a termine è ancora limitata con solo 40-50.000 unità l’anno. Gli stage possiedono grandi potenzialità, anche se al momento hanno scarsa consistenza numerica, mentre i piani di inserimento professionale stanno esaurendo la loro funzione. In ogni caso, da questi accordi scaturiscono alti livelli di soddisfazione del lavoro. Il lavoro a termine ha visto diminuire presenze maschili (- 29.000 unità), mentre la sua flessibilità ha portato un incremento delle presenze femminili di 69.000 unità nell’ultimo anno, tanto da arrivare al 51% del totale degli occupati a termine (contro il 46% di soltanto cinque anni fa).
Si riscontrano schemi più flessibili nel privato che nel pubblico, sebbene le cose stiano cambiando anche in questo ultimo settore.
Con più precisione ci riferiamo alla terza Legge Bassanini, la n. 191 del 1998, con la quale è stata sancita, grazie al ricorso solo in via sperimentale al telelavoro12 , la nuova era della flessibilità nel pubblico impiego.
Tuttavia, non bisogna trascurare i rischi del trend verso un lavoro part-time flessibile.
Questi possono riassumersi in un ritardo della sicurezza sociale nell’adeguarsi ai cambiamenti ed in un tentativo da parte di alcune aziende di sfuggire alle proprie responsabilità nei confronti dei dipendenti con questo tipo di contratto.
Inoltre, esistono rischi rilevanti per la competitività di un’impresa che nascono dalla sottovalutazione del capitale umano: a tutti è manifesta l’esistenza di un forte legame tra stabilità dell’impiego e formazione professionale.
Caratteristica dell’aumento della disoccupazione strutturale negli ultimi anni è la crescente “incompatibilità” tra i posti di lavoro perduti e le attuali possibilità di impiego, in termini sia di formazione, sia di esperienza.
Per quanto concerne più direttamente l’argomento qui trattato, il mismatch tra la domanda e l’offerta di lavoro legato all’ICT è anche dovuto alla differenza tra le professionalità ricercate dalle imprese e quelle offerte dalla manodopera in cerca di occupazione.
Conseguenze dirette del progresso tecnico sono cambiamenti strutturali e mutamenti della domanda di professionalità e qualificazione.
La tabella 2.4 rileva che l’incompatibilità nelle specializzazioni della forza lavoro proviene dai mutamenti nella composizione settoriale del prodotto e della stessa forza lavoro e pure dai mutamenti all’interno di ciascuna impresa, avvenuti per lo meno nel corso degli ultimi 50 anni.

grafico8

Fonte: nostra elaborazione Boyer (1989)

Si devono assolutamente evitare esuberi di lavoratori con caratteristiche professionali obsolete.
In tal senso, è necessario un serio programma di “formazione permanente13” per evitare che le conoscenze acquisite sul campo (learning by doing) e quelle teoriche perdano di valore ed “impoveriscano il capitale umano del lavoratore e dell’impresa”.
Per aumentare l’occupazione, nei comparti più deboli (la manutenzione informatica e le telecomunicazioni avanzate) più spesso colpiti negativamente dall’introduzione dell’innovazione tecnologica, si potrebbero predisporre programmi nel cui ambito imprese (o agenzie pubbliche) nazionali e di paesi europei, dopo essersi congiuntamente interessate alla formazione delle competenze specifiche necessarie per operare, si gemellino al fine di realizzarli, con utili per entrambe, in tempi ragionevolmente brevi.
Il sostegno per tali iniziative potrebbe provenire dagli enti locali, dai governi nazionali e dall’Unione Europea. Gli spostamenti settoriali dell’occupazione e le modifiche nella composizione delle specializzazioni della forza lavoro in quasi tutti i settori causano alcuni effetti aggregati.
In primo luogo, si prevede che continuerà la tendenza di lungo periodo all’incremento della presenza di “lavoratori dell’informazione” nel totale degli occupati. Oggi la flessibilità delle aziende, delle amministrazioni e delle reti di imprese dipende da una forza lavoro con un buon livello di istruzione generale, di addestramento e di aggiornamento e con nozioni di base nella gestione, elaborazione e trasmissione delle informazioni: a tal fine sono necessari un training14 ed un retraining coordinati dall’azienda per i dipendenti di tutti i livelli, nonché conoscenze elementari di informatica e buone capacità di comunicazione.
In secondo luogo, si sente la necessità di migliorare la qualità dell’istruzione, specialmente a favore dei più limitati, che spesso non riescono a adattarsi agli attuali modelli di esame e di insegnamento nelle classi.
La tecnologia dell’informazione (grazie ai sistemi multimediali, ai CD-ROM, alla realtà virtuale…) offre ora reali possibilità in questo senso attraverso chance di apprendimento a misura dell’allievo, nel pieno rispetto delle sue esigenze: è così che si sta diffondendo l’e-learning.
Infine, per innalzare il grado di flessibilità del sistema serve integrare uno standard medio di istruzione generale con una formazione intensiva sulle specializzazioni, in particolare quelle riguardanti l’ICT.
I professionisti dell’hardware e del software sono al centro della rivoluzione ICT, ma ad essi si affianca il bisogno parallelo, seppur meno sentito, di un certo volume di personale qualificato professionalmente a diversi livelli.
In conclusione, l’andamento della rivoluzione ICT sembra sempre più rivolto all’innalzamento crescente della formazione individuale (di base e specialistica) ed all’abbassamento della presenza dei lavoratori con una scarsa specializzazione e qualificazione. Di certo, un grado più alto di flessibilità può facilitare gli assestamenti strutturali, anche se deve essere possibile effettuare previsioni con una certa stabilità.

Nota 1: L’importazione dello sviluppo è un processo che aumenta la divisione del lavoro a livello internazionale, così che i differenziali salariali tra Paesi sviluppati sono sempre più simili tra loro.
Nota 2: Si affronterà questo argomento nel paragrafo successivo.
Nota 3: Il subcontracting permette di stringere partnership e di formare consorzi, aumentando il grado di flessibilità.
Nota 4: I dati sono aggiornati al 3 luglio 2001.
Nota 5: In Italia, il part-time (o tempo parziale) prevede, d’accordo con il datore di lavoro, lo svolgimento dell’attività lavorativa giornaliera per una quantità di ore inferiore a quella solitamente impiegata nello stesso tipo di occupazione.
Nota 6: Il lavoro a tempo determinato propriamente detto prevede che il lavoratore sia impiegato a tempo pieno (o full-time) per un periodo di mesi limitato (tre, sei…).
Nota 7: L’apprendistato prevede un periodo minimo di formazione di 120 ore annuali. L’apprendistato, il tirocinio ed il lavoro interinale sono regolati dalla legge 196 del 1997. Essi utilizzano fondi europei.
Nota 8: L’interinale (o lavoro in affitto) è un rapporto di lavoro a termine, in cui il personale è inviato presso un’azienda da società specializzate, riconosciute dal Ministero del Lavoro.
Nota 9: Il tirocinio formativo e di orientamento (o stage) consiste in una breve esperienza di lavoro per giovani che si svolge durante o dopo la loro formazione.
Nota 10: Il CFL è una particolare modalità di assunzione a tempo determinato, che riguarda i giovani tra i 16 ed i 32 anni e le imprese di tutti i settori produttivi, i consorzi, i gruppi di imprese, le fondazioni, le associazioni culturali e professionali, gli enti pubblici economici, i professionisti iscritti agli Albi e le associazioni sportive. I giovani sono formati con corsi modulati sulla base della loro qualifica di appartenenza e del loro titolo di studio.
Nota 11: Col contratto job sharing due lavoratori condividono un posto di lavoro a tempo pieno, spartendosi le ore della prestazione e concordando tra loro l’orario, di cui danno poi comunicazione all’azienda. Questa ha come solo interesse che il lavoro venga svolto. Entrambi sono responsabili in solido per gli obblighi che derivano dal loro operarato.
Nota 12: L’espressione telelavoro vuole indicare quel tipo di occupazione, che viene svolta da casa tramite un computer collegato alla sede dell’azienda.
Nota 13: Con l’espressione “formazione permanente” ci si vuole riferire ad un processo di apprendimento continuo nel tempo, sia per quel che concerne l’aspetto nozionistico del mestiere, sia riguardo all’apprendimento on-the-job.
Nota 14: Con l’espressione training si intende un corso di addestramento a compiti specifici nell’organizzazione aziendale.

2.5. Le nuove figure professionali richieste

Nonostante le ultime crisi, la net-economy italiana non sembra aver risentito eccessivamente delle problematiche americane, tanto che proprio adesso le aziende cominciano ad investire veramente per sviluppare i propri business.
Viene alla ribalta la necessità di formare nuove figure professionali rispondenti alle mutate esigenze del mercato.
Attualmente in Italia lo skill shortage, ossia la carenza di competenze specialistiche nel settore dell’ICT, è quantificabile in circa 200 mila unità nei primi mesi del 2002¹ .
I nuovi operatori della consulenza alle imprese che entrano in Rete stanno ricercando personale, offrendo servizi sia per la progettazione grafica e contenutistica del sito, sia per quella della sicurezza e della costruzione dei data base. Le figure più richieste sono gli esperti degli ambienti Unix, Nt e Linux, seguiti a ruota dagli esperti di sviluppo in ambiente web, dai designer di siti ai project manager.
Attualmente, le competenze maggiormente richieste sono quelle “miste”, ossia aziendali e creative, piuttosto che esclusivamente tecnologiche, che abbiano spiccate attitudini personali alla collaborazione e al lavoro in gruppo.
Queste figure mancano, anche perché la loro formazione non si limita a brevi periodi di aggiornamento, ma si basa inevitabilmente su un processo di scolarizzazione più lungo. Il problema è serio: si stima, infatti, che nel 2001 questo gap causerà al Pil italiano un mancato mercato pari a 17.000 miliardi.
Una soluzione potrebbe essere l'”importazione” di tecnici informatici da altri continenti: non a caso alcuni Paesi, come la Germania, si orientano verso le risorse umane più di altri mercati.
L’India, ad esempio, investe sempre più nella preparazione di figure qualificate sfornando quasi 200.000 unità specializzate l’anno, 25.000 dei quali sono ingegneri.
Dopo gli avvenimenti dell’11 settembre si possono indicare alcune linee di tendenza circa cosa ci aspetta per il futuro. Il primo semestre del 2001 ha visto il mercato dell’IT crescere di oltre il 10% rispetto al corrispondente periodo dell’anno precedente: un trend positivo con incrementi a due cifre registrati per nove anni consecutivi.
A trainare il settore è stata in primo luogo la telefonia mobile, con più di 46 milioni di linee attive nel nostro Paese. L’occupazione del comparto telecomunicazioni si mantiene stabile, prima di rinsaldarsi con la diffusione delle tecnologie del settore telefonini Gprs ed Umts. Si conferma il fenomeno dello skill shortage che ora investe prevalentemente le professioni c.d. di nicchia. Si nota una flessione nella ricerca delle figure che ruotano intorno al web, a causa dell’eccessiva fiducia data alla new economy.
Anche in Italia in ritardo di qualche mese si fanno sentire le conseguenze dei fallimenti delle dot.com, lasciando sul campo le perdite dei titoli di Borsa ed il ridimensionamento dello skill shortage, problema che, invece, nel 2000 il mercato del lavoro poneva come uno dei principali da risolvere.
Le imprese del settore stanno portando avanti un’operazione di smagrimento delle figure professionali legate alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Si ricercano attualmente abilità con precisi connotati di nicchia, esperti in settori specifici, come la sicurezza web od i linguaggi di programmazione per la telefonia mobile.
Il fenomeno delle dot.com ha evidenziato che dopo un anno, gli addetti del digitale necessitano di una riqualificazione, poiché fondamentalmente la preparazione legata alle figure intermedie non è più spendibile sul mercato del lavoro.

grafico9

Fonte: Federcomin – Anasis (settembre 2001)

Esaminiamo ora le figure professionali più richieste per ogni settore ICT.
Per i call center e la costumer care, va evidenziato che i primi all’interno delle aziende ed in outsourcing sono un mezzo essenziale per gestire le informazioni e l’assistenza.
Le professioni concernono le attività di comunicazione in entrata ed in uscita dai centralini, l’integrazione con le database aziendali e gli esperti di comunicazione web.
Circa la telefonia mobile, le nuove tecnologie Gprs e Umts necessitano competenze di telecomunicazioni e di informatica. Le professionalità richieste variano dai manutentori di reti ed installatori di apparati per telecomunicazioni, ai programmatori di centrali telefoniche. Assai richiesti anche i cablatori di reti Adsl ed in fibra ottica.
Riguardo al mondo Internet, continua lo sviluppo delle attività ad esso legate, anche se la crisi della new economy ha sostanzialmente ridotto il numero di skill ricercati. Dopo il periodo delle assunzioni di massa di sviluppatori di siti web, attualmente le imprese mirano a consolidare realtà minori (anche se consorziate) per demandare lavori in outsourcing. Rimangono richieste le professionalità collegate alla messa in Rete dei contenuti.
Il settore delle reti informatiche sta crescendo, a causa del bisogno delle aziende di legare le Intranet interne con Internet.
Si ricercano figure professionali legate alla progettazione ed alla manutenzione delle reti, gli amministratori di sistemi e gli integratori. Incrementa il numero di chi opera nel marketing digitale e nella pubblicità on-line (web-advisor).
Il settore degli esperti in sicurezza ha sempre visto questa figura professionale trovare lavoro con facilità. Gli ultimi eventi di settembre rendono importante la security informatica nelle comunicazioni aziendali.
Si cercano skill per controllare gli accessi alle reti informative, per combattere eventuali attacchi di hacker e prevenire la diffusione di virus. Tale richiesta di sicurezza giunge in particolare dall’ambito bancario, assicurativo e pubblico.
Il software e la programmazione risultano costituire un settore in continua crescita. Le figure professionali richieste oscillano tra i classici programmatori in linguaggi base (come il C++ ed il Visual Basic), agli esperti Java e Java Script, od anche ai programmatori di database.
Al primo posto troviamo gli informatici bancari e del settore gestionale, mentre stanno emergendo nuove figure, sempre più richieste, come quelle dei softwaristi in Linux, scelto sempre più in alternativa a Windows.

Nota 1: Questi dati sono reperibili presso il sito www.smau.it.

2.6. La situazione occupazionale del settore ICT e le prospettive per i prossimi dodici mesi

Le previsioni della crescita occupazionale legata all’ICT in Italia vedono un boom che non ha eguali in Europa e che, accompagnato dai dati sullo sviluppo dell’informatica, delle telecomunicazioni e di Internet, rappresenta una vera e propria svolta epocale per il nostro paese, finora in grande ritardo rispetto sia alle altre nazioni dell’Unione Europea, sia agli Stati Uniti. Nel settore informatico e delle telecomunicazioni si registra l’incremento maggiore in termini di occupazione (+5%): il lavoro hi-tech diventerà, nei prossimi anni, assai richiesto dalle aziende italiane.
La terza indagine annuale sull’occupazione nel settore dell’ICT, presentata da Assinform¹ rivela che in Italia il settore dell’informatica e delle telecomunicazioni continua ad incrementare l’occupazione e la nascita di nuove imprese. Dal 1998 al primo semestre del 2001, sono nate circa 5.000 nuove imprese (molte delle quali al Sud), e sono stati impiegati circa 47.000 nuovi lavoratori.
Secondo le rilevazioni effettuate, contrariamente agli anni precedenti, l’occupazione nel settore ICT ha continuato a crescere a tassi più sostenuti rispetto all’insieme dell’industria e dei servizi negli ultimi tre anni (486.000 nel 1998, 514.000 nel 1999 e 533.000 nel 2000, comprendendo anche le figure autonome), quando essa era diminuita in media dello 0,5% ogni anno. Il dato 2000 degli addetti ICT (533.000), unito al numero di specialisti ICT nelle aziende utilizzatrici (dalla banca alla pubblica amministrazione), porta a 1.034.000 il numero dei lavoratori italiani legati all’informatica e alle telecomunicazioni.
Il numero delle imprese cresce a tassi ancora più sostenuti, passando da 64.000 nel 1999 a 67.000 (+4,7%) nel 2000. Nel 1999, erano già cresciute del 4%. I tassi di crescita del numero delle imprese sono quasi ovunque superiori a quelli del numero degli occupati, confermando l’orientamento alle unità di ridotta dimensione ed, indirettamente, ad una vocazione imprenditoriale e professionale sempre più diffusa in Italia.
Attualmente, la nascita di nuove società avviene in un contesto assai diverso da quello della prima metà degli anni Novanta (in cui vi era espulsione di lavoratori dal settore ICT). Già dal 1997, l’origine di nuove aziende coincide con una forte crescita del mercato ICT (a tassi compresi tra il 12 e il 13%) e con una sostanziale carenza di personale qualificato. Tale incremento si realizza a tassi più che doppi rispetto all’insieme dell’industria e dei servizi. Tra il 1998 ed il 2000, lo sviluppo di nuove imprese si è concentrato nella forma delle “ditte individuali”. Nel periodo in questione, queste ultime (essenzialmente partite IVA) sono cresciute del 20%, le società di capitali (Srl e Spa) dell’8% e quelle di persone (Sas, Snc e altro) dell’1%, mentre le altre forme giuridiche del 5%. Le società individuali si sono eccezionalmente sviluppate nel comparto hardware ed assistenza tecnica (+47%), dato che le barriere all’entrata di singoli consulenti sono basse; invece, le società di capitali si sono evolute soprattutto nel campo delle telecomunicazioni (+12%). Interessante è anche la dinamica territoriale, specialmente al Sud. Rispetto al 1998, l’incremento del numero di aziende è compreso tra il 10 ed il 15% in Sardegna ed anche in tutta l’area che va dalla bassa Campania, alla Basilicata ed alla Puglia. Nella provincia di Lecce si registra il massimo sviluppo a livello nazionale, con un significativo +21,4%; un valore simile è stato riscontrato a L’Aquila. Al Nord le migliori performance si hanno nel Nord-Est, nell’area del Brenta ed in Friuli: nella zona di Udine e di Pordenone si registrano tassi di crescita del numero delle imprese compresi tra il 15 e il 20%. A fine 2000, la composizione per comparto delle aziende era la seguente: hardware e assistenza tecnica, 12,6%; attività commerciali indirette, 12,5%; servizi e telecomunicazioni, 3,1 %; software e servizi, 71,8 %. Opportunità occupazionali si concentrano soprattutto in quest’ultimo comparto (software e servizi), ove gli addetti sono passati dai circa 233.000 del 1998, ai 251.000 del 1999 (+7,4%), ai quasi 264.000 (+5,3%) del 2000, anno in cui hanno sfiorato la metà (49,5%) dei lavoratori totali (533.000) delle aziende ICT.
E’ anche confermato il ritrovato dinamismo del comparto hardware ed assistenza tecnica: dopo la crescita nel 1999 a quasi 54.000 addetti (+3,6%), esso mostra una buona performance anche nel 2000 con circa 56.000 addetti (+4,4%), pari al 10,6% di tutti gli occupati nelle imprese ICT.
Meno dinamico è il comparto delle telecomunicazioni, ove il numero dei lavoratori è passato dai 173.000 del 1999 ai quasi 175.000 del 2000, con un modesto progresso dell’1%. In questo caso, emerge un evidente fenomeno di assestamento rispetto agli incrementi più consistenti degli anni precedenti. Il peso dei lavoratori nelle telecomunicazioni sul complesso degli occupati ICT si riduce tra il 1999 e il 2000 dal 33,7 al 32,8%, tuttavia si rivela ancora molto consistente.
Circa l’incremento dell’occupazione per classi dimensionali d’impresa, il contributo delle PMI risulta preponderante.
Le entrate nette (ingressi al netto delle uscite) risultano in crescita del 9,2% nelle aziende da 1 a 9 addetti, del 6,7% in quelle da 10 a 49 addetti, del 5,5% in quelle da 50 a 249 addetti e solo del 2,5% nelle imprese con oltre 250 addetti.
Il settore ICT si conferma quello a più forte domanda di figure qualificate o, comunque, con elevati livelli di istruzione.
Il 30% delle assunzioni interessa laureati o addetti con diploma universitario (mentre la media nazionale di industria e servizi è del 7%), il 64% diplomati (contro il 32% del secondario e del terziario) e solamente il 6% soggetti con attestati di formazione di livello inferiore (contro il 61% dell’insieme industria-servizi).
Anche le micro-imprese con non più di 9 addetti sono ad alto assorbimento di laureati (15% dei nuovi assunti) e diplomati (70% dei nuovi assunti). Per quanto riguarda i titoli di laurea più richiesti, ai primi posti vi sono scienze dell’informazione, ingegneria e statistica.
Entro la fine dell’anno 2002, secondo Enrico Bucci della Cisco Systems² , il settore ICT ricercherà circa 50.000 addetti, ma c’è chi prevede un fabbisogno vicino alle 70.000 unità. A trainarlo provvederà l’incremento dei consumi, orientati prevalentemente verso le telecomunicazioni (telefonia cellulare e televisione via satellite).
Inoltre, secondo le previsioni, il mercato informatico continuerà a registrare crescite del 9 -10%; oltre a ciò, è in corso l’ammodernamento dei sistemi più obsoleti verso servizi on-line. Infine, per l’area software, si verificherà un ulteriore incremento soprattutto nei sistemi gestionali e nei servizi orientati ad Internet ed alle reti aziendali (oltre quota 12,6%).
Per quanto riguarda la richiesta occupazionale, il trend di crescita più elevato si registra nella gestione di Rete (webmaster e tecnici), nel settore dello sviluppo di applicativi (softwaristi gestionali) ed in quello dei c.d. servizi integrati (esperti in telefonia ed in informatica).

Nota 1: L’Assinform è l’associazione nazionale delle aziende di informatica e telecomunicazioni. Questi dati sono disponibili presso il sito www.wayvision.net.
Nota 2: Cisco Systems è un’azienda leader mondiale nelle tecnologie di Rete, di hardware e di software.

3°: Internet e l'E-Commerce

3.0. Introduzione

Nell’ultimo decennio, si è verificata la diffusione esplosiva di Internet, la Rete globale ipermediale che tocca più di 200 Paesi al mondo, collegando tra loro milioni di utenti, imprese, scuole, istituzioni o famiglie che siano.
Internet si configura come un fenomeno mediatico senza confini geografici o temporali, che fornisce una quantità pressoché illimitata di risorse, senza problemi dimensionali. Le sue potenzialità economiche (e, quindi, occupazionali) sono enormi: Internet permette non solo di comunicare in piccoli gruppi od in grandi meeting o di giocare, ma anche di scambiarsi informazioni e, tra l’altro, di comprare oggetti e servizi, ottenendo consigli ed assistenza.
In questo terzo capitolo, si intende prendere in esame il fenomeno Internet ed, in particolare, mostrare le possibilità occupazionali che il commercio elettronico offre.
Nel primo paragrafo si inquadrerà l’argomento, definendo, in particolare, cosa si intenderà con l’espressione e-commerce nel proseguo, nel secondo si illustrerà la situazione attuale del commercio elettronico in Italia ed in Europa, mentre nel terzo si estenderà l’analisi del suo andamento a livello mondiale. Il quarto paragrafo esaminerà l’effetto che i nuovi intermediari producono sulla net-economy, infine nel quinto si analizzerà il tipo di marketing delle imprese italiane sul web.

3.1. Nascita e sviluppo del commercio elettronico

Attualmente, Internet si configura come un grande mercato globale di prodotti-servizi e di attività di informazione, le quali finora sono state prevalenti.
La sua diffusione globale e la sua tecnologia ipermediale lo rendono un mezzo di per sé unico di comunicazione e scambio di beni per svariati motivi: la Rete non ha confini geografici; la comunicazione telematica può essere di due tipi, sincrona¹ (come in una chat) o asincrona ² (come quella per mezzo di e-mail); l’accesso ai negozi virtuali (grazie ai server web) è continuo; permette la comunicazione multimediale tra venditore e cliente. Inoltre, per mezzo delle tecnologie intelligent agent³ , Internet consente di acquistare dopo che si siano messe a confronto proposte di differenti fornitori, ed, infine, permette sia l’integrazione dei processi di marketing (dalla progettazione dei nuovi prodotti alla comunicazione con il cliente), sia quella tra il processo di vendita e sistema informativo aziendale (migliorando il percorso di raccolta di informazioni di mercato e la gestione contabile, finanziaria e logistica degli ordini).
La crescente diffusione di Internet tra la popolazione italiana viene confermata dai dati relativi agli utenti che hanno accesso alla Rete: alla fine del primo semestre 2001, infatti, si registra un totale di oltre 15,7 milioni di Internet users, rispetto ai 14,39 milioni del primo trimestre 2001 (+9%). Il segmento home guida il mercato degli accessi, superando la soglia dei 10 milioni di utilizzatori.
Rimane sostanzialmente invariato rispetto alla fine del 2000, il rapporto tra gli utenti Internet e il numero di Pc collegati alla Rete. Cresce anche il tempo medio che ciascun utente trascorre collegato a Internet nell’arco di un mese: al momento attuale, si stima che siano oltre 22 ore al mese in Italia, con un utilizzo più elevato negli ambienti di lavoro (25 ore mensili) rispetto alla connessione da casa (solo 19,5 ore). Tuttavia, siamo ancora lontani dalle quasi 40 ore al mese degli utenti degli Stati Uniti.
Dal 1994 ad oggi, si è materializzata quella applicazione commerciale di Internet, divenuta oramai una realtà innegabile, che ha conquistato il mercato con una crescita esponenziale: l’e-commerce.
Peter Bøegh-Nielsen4 definisce il commercio elettronico come la vendita di beni o servizi tramite Internet ad ogni livello della catena dell’offerta, tra imprese, tra imprese e consumatori o tra il settore pubblico e quello privato.
La vendita è basata su un ordine on-line, ma la consegna finale del bene o del servizio ed il loro pagamento possono essere on o off-line.
I principali vantaggi, che ne hanno certamente favorito la diffusione, sono due: in primo luogo, esso dovrebbe offrire un migliore servizio e rapporto qualità/prezzo, almeno in linea teorica, ed, inoltre, porta una riduzione dei costi operativi per l’offerta (Mariotti-Sgobbi, 2000).
Nonostante il momentaneo stallo del settore abbia frenato ultimamente la crescita, secondo un’indagine ActivMedia Research5 , più della metà dei siti Internet a scopo di lucro affermano di aver avuto utili, e il 28% degli amministratori di siti di commercio elettronico ritiene di raggiungere il pareggio entro fine anno.
Sono stati interpellati nel mondo circa 500 responsabili di siti e-commerce in lingua inglese: il 66% di questi era a scopo di lucro, il restante 34% perseguiva altri obiettivi, come la promozione di un’azienda presso i propri clienti.
Per il 54% dei siti analizzati, se crisi vi è stata, è stata superata ed ha cominciato a produrre nuovamente utili; il restante 46%, che pratica un marketing di tipo aggressivo, per tentare di guadagnare nuove porzioni di mercato con ogni mezzo, è ancora in passivo.
All’aumentare del numero di utenti Internet si accompagna la crescita degli acquirenti on-line, che utilizzano la Rete non soltanto come mezzo di lavoro o di intrattenimento, ma anche come canale per i propri acquisti. In tutto il 2000 il numero complessivo di web buyers italiani era pari a 1,83 milioni, ma soltanto nel primo semestre del 2001 la somma di tutti coloro che hanno acquistato on-line ammonta a quasi 1,6 milioni.
Il tasso annuale di crescita di questo indicatore dovrebbe essere pari per il 2001 a circa il 91% (per un ammontare totale di web buyers italiani pari a 3,5 milioni). Alla fine di quest’anno circa il 22% degli utenti Internet avrà effettuato almeno un acquisto on-line, contro il 14% del 2000.
In precedenza, nel paragrafo 2.2, si è già introdotto come il commercio elettronico si esplichi, di fatto, in varie relazioni: primariamente sono due, il business-to-consumer (B2C) ed il business-to-business (B2B).
Per ciò che concerne il primo, che riguarda lo scambio commerciale “virtuale” tra imprese e consumatori, l’esistenza di reti (Internet, Intranet) stravolge il ruolo del consumatore del mercato digitale, il quale può progettare il prodotto, fornendo direttamente le informazioni che lo riguardano. Mentre l’imprenditore con un po’ di flessibilità, producendo beni-servizi con le caratteristiche richieste dai propri acquirenti, può moltiplicarne il valore.
Questo fa emergere che indipendentemente dalla natura e dal tipo del bene-servizio scambiato, la materia prima del commercio elettronico è l’informazione. L’azienda deve sapere comunicare, le sue risorse sono tutte impegnate nel business.
Riguardo al B2B, nei rapporti tra imprese la presenza di reti incide fortemente con l’efficienza e l’efficacia aziendali, rispetto alle più costose e chiuse soluzioni del passato.
Per trent’anni l’Electronic Data Interchange (EDI) ha messo in comunicazione produttori, fornitori e distributori, come negli ultimi nove anni ha fatto il commercio elettronico a costi di molto inferiori.
Va sottolineata un’importante differenza tra B2C e B2B: mentre nelle vendite al consumatore finale è evidente la presenza di un certo ritardo, il commercio tra le imprese non ha mai fatto mancare segni di vitalità.
Se si analizzano i dati dell’ActivMedia Research, si nota che nel corso del secondo trimestre 2001, il valore della spesa sostenuta dai privati su Internet (B2C) ammonta ad oltre 510,3 milioni di euro. Nel primo semestre 2001, è stato generato un volume di commercio B2C superiore al totale del 2000 (+15%). Pertanto, il tasso annuale di crescita per il 2001 è atteso pari a circa il 129%, che dovrebbe portare il valore della spesa a quasi 1,9 miliardi di euro e le stime per il 2004 parlano di più di 10 miliardi.
In Italia, la spesa B2B nel secondo trimestre 2001 ha sfiorato quota 4 miliardi di euro, mentre se si considerano i primi sei mesi dell’anno il valore totale si aggira intorno ai 7,47 miliardi di euro.
Molto dipenderà anche dal tipo di utenti che utilizzeranno nei prossimi anni Internet: pertanto, per valutare le possibilità di crescita del settore, proponiamo qui di seguito due recenti studi.
Nel settembre 2001, l’Idc ha condotto una ricerca6 negli USA per indagare l’età degli internauti che dovrebbero entrare in Rete entro il 2005.
I dati evidenziano effettive opportunità per lo sviluppo dell’e-commerce, che potrà contare su una clientela più ampia nella fascia tra i 35 e i 54 anni e, quindi, su una maggiore disponibilità economica e possibilità di consumo. In questa classe, si collocherà il 28% dei nuovi navigatori. Se ad essi si aggiungono gli internauti esistenti, nel 2005 gli utenti tra i 35 e i 54 anni costituiranno ben il 76% del totale.
Un secondo segmento di rilievo per le imprese che sono passate all’e-commerce, è rappresentato dai giovani tra i 12 e i 17 anni, futuri clienti da conquistare e fidelizzare. In base ad alcuni dei dati emersi dalla ricerca dell’Idc, l’81% di questa categoria era già on-line nel 2000 e la percentuale dovrebbe rimanere sostanzialmente stabile nei prossimi anni.
Lo stesso vale per la fascia di età tra i 18 e i 34 anni. Il 68% degli internauti appartenenti a questo segmento era già in Rete nel 2000, inoltre, la percentuale relativa dovrebbe crescere meno rapidamente rispetto a quella della fascia 35-54 anni.
Per quanto riguarda gli over 55, invece, il numero dei navigatori raddoppierà entro il 2005, andando a costituire il 26% dell’intera popolazione. I navigatori più anziani potranno apprezzare la possibilità di fare la spesa da casa: la ricerca prevede ampie possibilità di crescita per i siti che offriranno prodotti e servizi rivolti a questo segmento di mercato.
Si prevede che, entro il 2005, la popolazione americana connessa alla Rete raddoppi ed il numero di nuovi utenti si aggiri intorno agli 85 milioni.
L’altra analisi sul mercato digitale mondiale che consideriamo è contenuta nel sito della Forrester7 . Essa individua un tipo diverso di segmentazione di quegli utenti Internet che fanno shopping on-line e li differenzia in quattro gruppi. La prima di queste categorie è costituita dai c.d. navigatori pionieri (o pioneer internetters), i quali utilizzano Internet già da tempo anche per gli acquisti abituali.
Sono principalmente uomini con un’elevata istruzione ed un reddito alto; essi visitano soprattutto siti che trattano prodotti finanziari.
La seconda categoria analizzata è quella della nuova generazione (o generation next): essa è composta per lo più di utenti giovani e tecnologicamente preparati, che navigano in Internet da meno di un anno, che sono informati sulle opportunità che offre e lo usano anche per lo shopping.
Visitano soprattutto siti di film e di entertainment, chat ed, inoltre, acquistano video, prodotti elettronici, pacchetti viaggio, cd, libri e software.
In media si collegano quattro o cinque ore la settimana. La loro principale motivazione all’acquisto on-line è il prezzo basso. La terza classe definita dalla ricerca è data dagli acquirenti del futuro (o future buyers): costoro usano Internet da meno di due anni ed iniziano solo ora a comprendere il suo funzionamento.
Si prevede che acquisteranno on-line nei prossimi sei mesi. Sono principalmente donne, che cercano nella Rete le attività presenti a livello locale, anche per acquistare on-line. L’ultima categoria considera tutti i non propensi allo shopping on-line (o shopping hold-outs), il 40% degli internauti.
Essi usano Internet da più di due anni ed hanno lo stesso profilo dei navigatori pionieri, ma sono meno tecnologicamente preparati ed interessati e si collegano ad Internet cinque ore a settimana.
I profili sopraesposti sono rappresentabili nella tabella 3.1, in base al relativo grado (basso, medio, alto) di fiducia, necessità ed esperienza.

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A livello europeo (nei cinque Paesi più industrializzati), la Forrester prevede che nel 2003 la popolazione degli acquirenti on-line crescerà del 32% rispetto a quella del 1999.
Nel grafico seguente (tabella 3.2), sono mostrate le percentuali di acquirenti tramite commercio elettronico, suddivisi secondo le motivazioni che li muovono (lavoro, famiglia, divertimento, altre attività) rispettivamente nel Regno Unito, in Francia, Germania, Svezia ed Olanda.

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La tabella 3.3, invece, ci consente di paragonare la situazione del 1999 degli utenti Internet, collegati dalla propria abitazione, dei cinque maggiori Paesi industrializzati europei (identificati dalla sigla TG-E) con quella stimata per il 2003 ed anche di fare un raffronto parallelo con la condizione degli Stati Uniti del 1999. Nei cinque Paesi in questione, le previsioni annunciano che il commercio elettronico dovrebbe vedere più che raddoppiare il volume dei propri utenti.
Tuttavia, le percentuali dei segmenti che, rispetto al totale, sono destinate ad aumentare consistentemente dovrebbero essere soltanto quelle dei navigatori pionieri e degli acquirenti del futuro, mentre la consistenza dei non propensi allo shopping on-line dovrebbe incrementare, rispetto alla popolazione considerata, solamente dell’1%.

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In ogni caso, la Forrester, sulla base delle informazioni raccolte, è convinta che l’e-commerce nel prossimo futuro avrà una diffusione eccezionale in tutta Europa, specialmente per la sua capacità di favorire rapporti commerciali tra acquirenti e venditori, che off-line sarebbero difficilmente entrati in contatto. In tal senso, la Rete permette la nascita di nuove ed importanti relazioni d’affari, ad esempio tramite quei portali, che mettono direttamente in contatto i commercianti con i fornitori.
La necessità di informatizzare le imprese o di ricorrere a prodotti tecnologici può essere conseguenza di un periodo di poca attività lavorativa e diminuzione dei guadagni o di crescita esplosiva ed elevati profitti, di saturazione del mercato e limitati margini d’entrata (stagnazione economica), di mode o di un continuo sviluppo tecnologico dei prodotti. Questo è chiaramente legato alle curve di crescita dei beni nel tempo.
Nella tabella 3.4, proponiamo ora alcuni grafici delle curve di crescita secondo il tipo di prodotto.
La funzione classica di crescita è legata al mercato dei televisori, uno sviluppo lento è tipico delle macchine per fax, mentre un tipo di crescita rapida è quella legata ai telefoni cellulari.
Infine, un mercato che cresce continuamente, tra alti e bassi, è quello dei personal computer.

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Nota 1: Una comunicazione sincrona avviene in tempo reale.
Nota 2: Nella comunicazione asincrona il ricevente può rispondere ad messaggio in tempi differenti.
Nota 3: Un intelligent agent, o agente software, è un programma di supporto alla ricerca ed alla selezione di informazioni on-line, che tiene in considerazione lo specifico profilo dell’utente. Raccogliendo ed elaborando informazioni sulla base delle specifiche dettate dal consumatore, può, ad esempio, visitare alcuni siti che offrono il prodotto ricercato on-line, prospettando all’utente il prodotto “migliore” in base ad alcuni parametri, posti come rilevanti.
Nota 4: L’intervento del capo della divisione statistica danese è tratto dalla terza sessione della tavola rotonda B sul commercio elettronico di Commerce 99, seminario svolto a Bruxelles nel novembre 1999.
Nota 5: L’ActivMedia Research è una divisione dell’ActivMedia Inc. specializzata in ricerche relative al web.
Nota 6: Tale studio è disponibile presso il sito www.wayvision.net.

3.2. La situazione in Italia ed in Europa

In Italia, nonostante la crisi della new economy, il B2C è in espansione (pur se al disotto delle aspettative) con 425 milioni di euro di revenues nel 2000, contro i 115 del 1999 e i 46 di tre anni fa.
In ogni caso, attraverso Internet ormai gli italiani comprano di tutto: libri, cd, software, attrezzature informatiche, viaggi, prodotti finanziari, biglietti ed alimentari (A&F, 24 settembre 2001, pp. 26 e 56).
La regione che ha la leadership di siti e-commerce è la Lombardia (28% del totale), seguita dalla Toscana (14%), dal Lazio e dall’Emilia Romagna (entrambe al 10%) e dal Piemonte (7%).
Il 41% del totale delle vendite B2C è rappresentato dal made in Italy, seguito da hardware, software ed editoria (all’8%) e di grocery pluriprodotto (al 5%). Interessante è l’ingresso massiccio delle vendite on-line di colossi della grande distribuzione italiana, come Coop ed Esselunga (A&F, 17 settembre 2001, pag. 21).

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Fonte: nostra elaborazione www.studioeidos.com

Da una ricerca di mercato condotta da Gfk, per conto del “Wall Street Journal of Europe¹” , è emerso che gli italiani spendono più di altri popoli europei quando fanno acquisti su Internet.
Il pubblico di riferimento dell’indagine ha un’età compresa tra i 14 e i 69 anni, i Paesi coinvolti sono: Austria, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Spagna, Svezia, Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria.
Il 38% degli italiani ha accesso ad Internet contro il 43% della media europea, il 18% dei nostri connazionali compie acquisti on-line contro il 34% della media europea, ma il dato più curioso è che il 35% spende più di 500 euro (cifra spesa dal 19% degli europei).
I motivi che spingono l’italiano allo shopping su Internet sono la varietà dei prodotti (54%), la possibilità di comprare in ogni parte del mondo (57%) ed a qualsiasi ora (42%).
Fuori dal circuito virtuale, occorre realizzarne uno virtuoso di delivery efficace.
Infatti, un elemento importante del servizio commerciale, tradizionale e digitale, è la funzione distributiva della logistica, che mette a disposizione del consumatore i beni acquistati. Nel commercio elettronico né per il distributore, né per il cliente è necessario svolgere una funzione logistica, che si svilupperà tramite un agente economico specializzato. Inoltre, l’impatto dell’e-commerce sarà profondamente diverso a seconda che si tratti di beni o servizi.
Quando bisogna trasferire fisicamente un bene, il canale virtuale è svantaggiato, poiché il costo di trasporto a carico del distributore si addiziona al prezzo del bene. Per i beni banali, come i prodotti dei supermercati, i costi di natura logistica sono particolarmente elevati e lo svantaggio è maggiore; per i beni problematici, più cari e meno acquistati, per i quali serve un processo di ricerca per avere informazioni sulle varianti disponibili sul mercato, i costi logistici sono minori.
Al contrario, il commercio elettronico è particolarmente indicato per la distribuzione di servizi quando il cliente non interviene direttamente nel loro svolgimento, o può farlo a distanza (come, ad esempio, avviene per i servizi finanziari), od anche quando acquista un diritto ad un servizio che sarà erogato successivamente a condizioni non influenzate dalle modalità di acquisto (caso tipico è quello dei servizi di prenotazione, che possono essere di vario genere: viaggi, biglietti…).
Dalla tabella 3.6, emerge la situazione in Europa dei beni più venduti sulla Rete.
Fatto 100 il totale dei navigatori che acquistano on-line, si vedono quali categorie di beni sono comprati di più: sostanzialmente, ai primi posti si trovano beni banali, per i quali Internet è come una vetrina, poi vi sono vari tipi di servizi.

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Fonte: nostra elaborazione studio èidos

Il Boston Consulting Group (Bcg) ha fatto una scoperta interessante nella sua ultima ricerca sull’e-commerce in Europa² : anche se il commercio elettronico non si sviluppa in maniera esponenziale, esso moltiplica le vendite fuori dal web e, quindi, permette ai produttori di beni e servizi un aumento del loro fatturato. In altre parole, la Rete viene utilizzata come una “vetrina” per conoscere il prodotto, che poi viene acquistato normalmente in un negozio od in un grande magazzino.
La ricerca in questione rileva che in Europa il 37% dei “navigatori”utilizza il web per scegliere un bene od un servizio da acquistare. L’85% di costoro, pari al 24% dei “navigatori” farà poi acquisti fuori dalla Rete.
Nei primi tre mesi del 2001, un europeo su sei ha usato la Rete per avere informazioni su prodotti e servizi.
Durante lo stesso periodo, un adulto su undici ha fatto un ordine on-line. In Europa, in termini di commercio sul web, Danimarca, Svezia e Svizzera sono in testa, mentre il Belgio insieme al Lussemburgo, l’Italia e la Spagna contano una quantità davvero esigua di traffico commerciale.
In particolare, in Spagna, la cosiddetta new economy sta generando, il 25,46% dell’occupazione³ . Paradossalmente, la creazione di posti di lavoro corre parallelamente allo stallo di tutto il settore. Anna Birulés, ministro della Scienza e della Tecnologia, ha puntualizzato il problema della carenza in Spagna di manodopera specializzata nel settore delle nuove tecnologie, e ha ricordato che il suo ministero ha lanciato un programma di formazione per 14.000 disoccupati al fine di coprire le mancanze di questo settore.
La Birulés ha altresì segnalato che il ministero promuoverà azioni per stimolare la formazione degli spagnoli relativamente alle nuove tecnologie. Una delle principali strategie attuate è l’approvazione di incentivi fiscali all’acquisto di computer.
Metà degli europei che negli ultimi sei mesi si sono collegati alla Rete per avere informazioni sui prodotti, hanno fatto un ordine.
Guidano la classifica inglesi, norvegesi e svedesi, mentre gli italiani e gli spagnoli sono più riluttanti ad utilizzare il commercio on-line.
Gli europei, tuttavia, sono ben lontani dai valori USA, dove il 30% dei navigatori compra on-line e ben il 74% di questi fa acquisti in Rete ogni mese.
Da tutti questi dati emerge che è estremamente rilevante integrare Internet con i canali tradizionali, anche per i futuri possibili risvolti occupazionali.
Multicanalità, sembra essere questa la parola magica dell’e-commerce: è così che Internet può incrementare il fatturato di un’azienda.
Infatti, è tramontata l’idea dei pure-player4 di commerciare solo sulla Rete: Internet va usato come un altro canale da integrare alla rete distributiva reale, assieme ai suoi magazzini e servizi. Chi riesce a far questo può guadagnare bene, come dimostra il caso del supermercato britannico Tesco5 (A&F, 23 luglio 2001, pag. 25) e, quindi, può anche crescere ed aumentare la sua necessità di personale. Viceversa, anche operatori nati sulla Rete stanno creando sul territorio punti vendita col loro marchio, in cui si possano reperire i loro prodotti.
Tale strategia è perseguita tra le altre da Chl, Attinet ed Esperya (A&F, 26 novembre 2001).
In altre parole, individuare una “ricetta” per instaurare una sana collaborazione tra rete reale e Rete virtuale, potrebbe generare un incremento di produzione ed occupazione, che gioverebbe all’intero sistema, aumentando il benessere. Nonostante la crisi del commercio elettronico, cominciata a Natale 1999, dopo una serie di scelte sbagliate, anche Amazon è riuscita ad applicare, personalizzandola, tale ricetta con successo.
Anziché fare concorrenza alla distribuzione tradizionale (ipermercati, grandi magazzini, catene di rivenditori specializzati) ha imboccato la strada delle alleanze: ha scelto di non vendere tutto in proprio, ma di offrire il proprio know how nella logistica e nell’utilizzo di Internet, “ospitando” sul suo portale i negozi on-line di altre imprese.
Per Amazon, l’offerta di tali servizi ad altre aziende fornisce margini di redditività altissimi (fino al 60% lordo) rispetto al commercio elettronico diretto, ma costituisce ancora solo un decimo del suo fatturato (A&F, 15 ottobre 2001, pag. 8).
Comunque, il leader dei siti che fanno e-commerce6 resta eBay con 8 miliardi di pageview negli ultimi tre mesi del 2000, ben più del doppio dei 3 miliardi e 200 milioni di Amazon. Gli altri siti del settore si fermano a meno di un miliardo di visitatori, come riportato in tabella 3.7.

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Fonte: nostra elaborazione Alexa Research

Nota 1: Tale studio è disponibile presso il sito www.wayvision.net.
Nota 2: Ci si riferisce a “The multichannel consumer – Need to integrate on-line and off-line channels”, disponibile sul sito www.wayvision.net.
Nota 3: Questi dati sono tratti dalla relazione Infoempleo 2001, elaborata dal Circolo del Progresso insieme al Banco Bilbao Vizcaya Argenterebbe (BBVA) e Telefónica.
Nota 4: Con l’uso di questa terminologia, ci si riferisce ad operatori che agiscono commercialmente solo su Internet.
Nota 5: Tesco, viene definito dal Bcg come “il supermercato alimentare on-line di maggior successo mondiale”. Con una rete di 200 supermercati, Tesco può servire il 90% dei britannici, grazie ad un valido sistema di consegne a domicilio. Il suo sito di commercio elettronico, www.tesco.com, ha integrato la rete fisica con i servizi di Internet: il 70% dei suoi clienti acquista prodotti on-line ed ha dato a Tesco un fatturato di 570 milioni di euro. Inoltre, si è avuta una focalizzazione sui migliori clienti (core customers) per fidelizzare ulteriormente per mezzo di Internet “coloro che spendono davvero”, più che per raggiungere qualunque tipo di cliente. In terzo ed ultimo luogo, si è puntato alla soddisfazione del consumatore, che così consuma fino al 71% in più ed effettua transazioni che vanno dal doppio a due volte e mezza di quelle di clienti non soddisfatti.
Nota 6: L’Alexa Research ha recensito questi dati nel suo “E-commerce report Q4 2000”, in cui analizza e classifica i siti di commercio elettronico con maggiore numero di pageview.

3.3. L’e-commerce nel mondo

Per quel che riguarda la situazione internazionale, secondo il “Global E-commerce Report del 2001¹” , gli Stati Uniti, che hanno la più alta percentuale di compratori on-line (con il 33%), sono seguiti dalla Germania (con il 28%), e dalla Gran Bretagna (con il 24%).
Inoltre, la TNS ha intervistato i navigatori circa la loro intenzione di comprare on-line nei prossimi sei mesi. Sebbene l’inchiesta ha rivelato che in Giappone solo il 17% degli internauti abbia già comprato on-line, il Paese vanta il più alto livello di futuri acquirenti on-line, con il 41% di utenti Internet che progetta di comprare qualcosa nei prossimi sei mesi. La Germania segue al secondo posto con un buon 30%, mentre, al momento, gli Stati Uniti occupano solo il settimo posto con il 23%.
La Taylor Nelson Sofres ha scoperto poi che il 15% della totalità mondiale dei navigatori Internet compra on-line, il 15% compra off-line dopo aver ottenuto informazioni dalla Rete, ed il 15%, pur avendo deciso di acquistare via Internet, non conclude l’acquisto.
Il Report sottolinea anche come ai primi posti nella classifica degli articoli più acquistati on-line ci siano libri e cd: nel 2001 il 26% dei navigatori afferma di aver comprato libri via Internet e il 17% cd musicali.
Secondo gli indici di vendita in Nord America e Canada² , la spesa totale nelle vendite on-line, nel mese di febbraio 2001 è aumentata da 3 a 3,4 miliardi di dollari. Ad aprile 2001, i nuclei familiari che fanno acquisti su Internet crescono a quota 13 milioni e mezzo (rispetto ai 13 di gennaio), mentre i consumatori hanno speso mediamente a persona $248 a febbraio, rispetto ai $229 di gennaio.
Vediamo quali sono stati i settori più interessanti cresciuti grazie all’e-commerce negli USA agli inizi del 2001. Gli elettrodomestici cominciano a rivestire un ruolo importante nella spesa complessiva, passando dai 24 ai 44 milioni di dollari.
Ottimi risultati anche gioielleria e fiori, cresciuti di quasi il 40% (da $99 milioni in totale in gennaio, a più di $166 milioni in febbraio). Invece, tra le categorie che hanno visto diminuire le vendite on-line ci sono le videocassette (da $83 a $52 milioni in gennaio), le forniture per ufficio che sono scese a $69 milioni in febbraio (-21%) ed i giocattoli ed i videogiochi che hanno raggiunto quota $86 milioni in febbraio (-31%). Prima dell’11 settembre, nonostante il rallentamento economico, Internet continuava a prosperare come canale per acquisti di consumatori nel Nord America.
Invece, dal rapporto Nielsen/NetRatings³ emerge che i Paesi in cui il commercio on-line, a livello mondiale, è maggiormente sviluppato sono l’Australia, la Nuova Zelanda, la Svezia e la Danimarca. In Australia e in Nuova Zelanda un adulto su quattro usa la Rete per ricercare informazioni riguardanti i prodotti, ed il numero degli acquisti via Internet è elevato.
Per quanto riguarda le altre regioni del Pacifico, se il numero degli acquisti da parte della Corea del Sud è in crescita (tre coreani su cinque trasformano la richiesta di informazioni in acquisto), soltanto un terzo degli adulti di Hong Kong o Taiwan compra in Rete dopo aver effettuato una ricerca on-line.
Lo studio “Reviving Japan’s economy4” prende in esame proprio la situazione del mercato elettronico asiatico, studiando la maniera nella quale gli imprenditori orientali operano rispetto a quelli europei. L’analisi ha evidenziato un’enorme efficienza asiatica, che né l’Europa né l’America riescono ad eguagliare, dato che i siti asiatici dedicati all’e-commerce costano in media meno che in Occidente, ma riescono ad attrarre un maggior numero di clienti a parità di costo.
Tale vantaggio competitivo è legato al fatto che gli imprenditori orientali on-line evitano di dissipare risorse finanziarie per accaparrarsi un pubblico eccessivamente ampio, mentre preferiscono investire in specializzazione.
Ciò permette di ottenere un margine di profitto più alto su ogni singolo prodotto, rispetto a quello che è in grado di ricavare un imprenditore europeo o americano, che ricorre a prodotti, servizi e target di tipo più generico.
Nel mondo, negli ultimi anni, la Rete ha fatto registrare un incremento vertiginoso del traffico, ciò è sintomatico dell’esplosiva espansione del mercato digitale. Le previsioni per il futuro sono ottimistiche: per il 2004, si ritiene che si possa assistere ad un’ipercrescita nell’Europa dell’Est, nella zona asiatica che si affaccia sul Pacifico, nel Nord America ed in America Latina.

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Tra il 2000 ed il 2010, tutti questi Paesi prenderanno parte nello stesso tempo ad un processo di sviluppo, che porterà nel 2005 ad un giro d’affari a livello mondiale di circa 7 miliardi e 230 milioni di euro di cui ben il 75,8% spetterà al Nord America, il 12% apparterrà all’Asia-Pacifico, l’11% toccherà all’Europa e solo il 1,2% sarà dell’America Latina.

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In Europa il mercato delle vendite al dettaglio sarà protagonista di una rapida crescita simile a quella che si è vista nel 1998 in Usa; infatti, è passato da un giro d’affari di circa 17 milioni di euro del 1998 a 385 milioni di euro del 1999, fino ad 1 miliardo e 350 milioni di euro nel 2000.
Uno dei mercati più promettenti per il settore è l’America Latina: a riguardo il grafico seguente (tabella 3.10) rappresenta l’andamento della crescita che Internet dovrebbe generare entro il 2003 in Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay.

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Nella figura 3.11, viene illustrato come probabilmente i consumatori sposteranno i loro acquisti on-line all’interno del B2C e del B2B, entro il 2004.
In quell’anno, il mercato B2B arriverà ad un giro d’affari di 6 miliardi e 715 milioni di euro, mentre nel 2005 il B2C dovrebbe raggiungere i 470 milioni di euro.

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Nota 1: Tale rapporto è stato steso dalla Taylor Nelson Sofres (TNS) ed è disponibile presso il suo sito Internet: www.tnsofres.com.
Nota 2: La National Retail Federation (NRF) e la Forrester Research Inc., in associazione con Greenfield On-line, hanno presentato la quattordicesima inchiesta sugli indici di vendita in Nord America e Canada, disponibile presso il sito www.wayvision.net.
Nota 3: La Nielsen/NetRatings rappresenta il servizio di misurazione dell’ACNielsen.
Nota 4: Tale ricerca è stata curata dalla McKinsey. Essa è disponibile presso il sito www.wayvision.net.

3.4. La net-economy e l’e-commerce: i nuovi intermediari

La net-economy (l’economia di Rete) sostanzialmente descrive lo spostamento e l’incremento del valore aggiunto dalla produzione industriale di beni fisici alla fornitura di prodotti “immateriali” e/o knowledge-based.
Questa ultima prevede un elevato know how intellettuale, come nel caso del software informatico.
Con Internet, l’economia ed il lavoro hanno iniziato a svilupparsi in modo nuovo, seguendo sistemi economici profondamente diversi da quelli tradizionali (propri dell’organizzazione del mercato nella società industriale).
Lo scenario innovativo delineato dalla net-economy determina una nuova modalità di concepire l’economia, in cui la conoscenza diviene fonte di business.
Ogni produzione di buona qualità oggigiorno é stata automatizzata ed incorpora elevate quantità di idee innovative e di nuove tecnologie, che ne hanno modificato i sistemi di produzione, distribuzione, assistenza e comunicazione del marketing personalizzato (one-to-one customization).
Nel passaggio da una produzione di beni fisici ad una di beni immateriali a forte contenuto intellettuale, il fulcro della creazione del plusvalore si sposta da materie prime e macchine a contenuti intellettuali della produzione.
Se a tutto ciò aggiungiamo la facilità di comunicazione a prezzi sempre più bassi, si può comprendere come la net-economy acceleri la trasformazione del mercato globale.
Lo spazio fisico via Internet scompare, viceversa una localizzazione delle attività di business nello spazio era tipica della logica del mercato locale tradizionale (place market), che era del tipo “si vende cosa si produce”.
In questa ottica, la catena del valore era di tipo lineare e passava dalla produzione locale, all’intermediazione di servizi (di informazione, finanziari, di trasporto…), al consumo.
Attualmente, con l’estensione delle nuove tecnologie (computer, sistemi di telefonia wap, net-tv satellitare…), non esistono più localizzazioni spaziali: il mercato è inserito in Rete, ora si parla di space market, in esso le barriere fisiche ed i confini geografici vengono annullati. L’informazione nel world wide web (www) é accessibile ovunque nel mondo in tempo reale e senza impedimenti burocratici, pertanto la posizione fisica diventa puramente virtuale.
Infatti, si usa dire che “si vende tutto quello che si riesce a distribuire ovunque si produce”, poiché chi accede ad Internet comunica con il mondo intero.
Questa dimensione globale dell’informazione nel www contribuisce ad incrementare la velocità degli scambi commerciali, che si realizzano a prezzi irrisori con qualsiasi Paese del mondo. Dato che vale l’equivalenza tra tempo e denaro, le economie che agiscono attivamente nel commercio elettronico (come quella statunitense) presentano un’ascesa esponenziale: è questo il motivo che deve spingere a facilitare l’estensione dell’e-commerce a livello mondiale¹.
La velocità degli scambi commerciali propria del commercio elettronico caratterizza fortemente il valore della net-economy, che è passato dallo spazio al tempo. Ne consegue che vanno ridefiniti i processi organizzativi delle attività di interscambio telematico tra imprese (B2B) ed è necessario correlare in Internet i flussi di informazione on-line con gli scambi commerciali.
E’ evidente come la Rete, eliminando costi e frizioni, potrebbe avvicinare il mercato virtuale alla concorrenza perfetta con informazioni complete, prezzi uguali ai costi medi minimi di lungo periodo e via dicendo, ma nella realtà così non è.
Vi sono costi di transazione, il prodotto-servizio è sicuramente molto differenziato, esistono barriere all’entrata (ad esempio pubblicitarie), i prezzi differiscono a seconda del sito che propone i vari prodotti-servizi ed, inoltre, i meccanismi di reputazione svolgono un ruolo estremamente rilevante nell’orientare le preferenze degli acquirenti.
L’approssimazione migliore di un mercato perfetto on-line è costituita da quegli intermediari che forniscono alla domanda ed all’offerta soltanto un “luogo virtuale” di incontro sulla Rete, coordinando le parti senza interferire su contenuti e marketing. La modalità più diffusa di questo recente tipo di intermediazione sono le aste on-line, il cui profitto consiste in genere in una commissione sulle transazioni eseguite. In particolare, la compagnia eBay fornisce un portale di supporto agli scambi one-to-one tra privati.
La persistenza delle asimmetrie informative e dei meccanismi di reputazione aumentano il grado di imperfezione, che porta il potere di mercato tenuto da imprese portatrici di marchi affermati sui mercati tradizionali a trasferirsi su Internet.
In ogni caso, i mercati virtuali imperfetti vedono sempre più spesso l’entrata di nuovi soggetti che acquisiscono molti dei vantaggi della net-economy, le c.d. infomediary-extended telematics enterprises.
Tali imprese sono affiliate tra loro, operano in infrastrutture virtuali delocalizzate ed utilizzano la Rete per sviluppare l’e-commerce, condividendo conoscenze complementari: questo corrisponde all’archetipo dell’impresa-rete di tipo policentrico².
Tali nuovi intermediari on-line possono anche essere il risultato di un processo di aggregazione di intermediari commerciali tradizionali (grossisti, trasportatori, finanziatori, agenzie di informazione, camere di commercio, associazioni di categoria o dei consumatori…), che vogliono sviluppare on-line la gestione delle relazioni di e-commerce, sia nel settore degli acquisti (e-procurement³ buy site), sia nel settore delle vendite (e-procurement sell site). I nuovi intermediari devono essere capaci di coordinare l’informazione tra gruppi di acquisto e di collaborare attivamente per personalizzare le vendite al consumatore finale. Queste nuove ed articolate agenzie di intermediazione del mercato elettronico (e-market4) devono il loro successo alla loro capacità di diminuire il tempo di gestione e di scambio, sia degli ordini sia del fatturato, facilitando nuovi accordi commerciali in funzione dell’espansione dei mercati e dando nuova visibilità alle offerte di vendita. La mancata comprensione del motivo dell’introduzione di questi nuovi intermediari conduce all’incapacità di realizzare nuove opportunità di lavoro ad elevata qualificazione professionale.
Comunque, con la rapidità della crescita della net-economy divengono sempre più inutili le vecchie forme di servizi di intermediazione del mercato, organizzati in strutture gerarchiche e poco flessibili.
Queste risultano essere predestinate al fallimento, qualora non trovino rinnovata abilità e rapidità nell’adeguare i loro processi organizzativi alla Rete, in modo da effettuare una veloce trasformazione delle loro strutture.
In tal senso, la conoscenza creativa ed il know how tecnologico divengono sempre più efficaci fattori di sviluppo nel sistema dell’ICT: nella società industriale è stato possibile separare la conoscenza dalla produzione; ma non nella net-economy, dove lo sviluppo dipende proprio dalla loro integrazione.
Pertanto, non basta inserire nuove informazioni in Rete per ottenere tangibili successi economici dall’uso del www: se la separazione tra conoscenza e produzione di beni e servizi permane, difficilmente il know how (anche qualora venga trasferito nella vetrina di Internet) potrà divenire decisiva fonte di business, componente essenziale della creazione di valore aggiunto nella net-economy. In conclusione, il cambiamento imposto dalla tecnologia, soprattutto per quel che riguarda l’ICT, ha prodotto un dinamismo inarrestabile che influisce su tutta l’organizzazione economica e sociale del lavoro.
Quindi, sconosciute potenzialità di sviluppo socio-economico potranno affermarsi ove si comprenda che le risorse umane ed il progresso tecnico rappresentano la base conoscitiva e organizzativa della net-economy e segnano il futuro stesso della società della conoscenza, tanto promossa dall’Unione Europea.
Per cogliere tali opportunità di crescita, sono decisive la qualificazione professionale e l’innovazione continua delle tecniche produttive; ne consegue la necessità degli investimenti in processi educativi e formativi ed in ricerca e sviluppo, come già visto nel paragrafo 2.6.
Il fenomeno è complesso: ormai si è smesso di credere che Internet risolva tutti i problemi informatici delle imprese. Questo ha portato al ridimensionamento di piccole realtà, sorte da giovani team di lavoro, mentre ha indotto i clienti a concentrare il loro business su grandi software house o aziende in outsourcing5 , capaci di occuparsi prontamente sia di aspetti hardware sia software. E’ per tale ragione che sono ricercati esperti che applichino concretamente le loro conoscenze tecnologiche alle realtà delle imprese, come integratori di reti aziendali e programmatori in grado di trasportare sul web i contenuti delle Intranet.
E’ un momento in cui si sente il bisogno di “capitalizzare” il patrimonio informativo, cercando di adattarlo al mondo di Internet, con rapidi tempi di esecuzione e bassi costi.
Non sempre lo si è fatto nel modo adeguato. L’esperienza dell’e-commerce è indicativa.
In molti hanno realizzato cataloghi elettronici e siti con negozi virtuali, preoccupandosi meno di sviluppare azioni di marketing e di arricchire le pagine di nuovi contenuti. Ne è risultata la stagnazione del mercato con la scarsa propensione dei consumatori agli acquisti on-line.
Nel primo semestre 2001, il valore complessivo del mercato italiano del settore IT, è stato pari a 30,5 milioni di euro.
Verso settembre si sono verificati alcuni cedimenti a causa della riduzione degli investimenti aziendali per il commercio elettronico B2C.
Attualmente, emergono condizioni di incertezza correlate al calo della domanda delle famiglie ed alla diminuzione degli acquisti nell’informatica da parte delle PMI.
Siamo ancora in tempo per porre riparo a questa situazione, ma bisogna far sì che le “imprese virtuali” si rivolgano prontamente e con maggiore attenzione ad operazioni di web marketing.

Nota 1: Il ruolo delle istituzioni ed alcune considerazioni di politica industriale per la diffusione del commercio elettronico nel mondo saranno affrontati nel paragrafo 3.6.
Nota 2: In particolare, il ricorso all’outsourcing può condurre a risultati diversi in funzione della criticità dei processi esternalizzati. Quanto più le attività esternalizzate sono basate su competenze complementari distintive, tanto maggiore è la spinta verso soluzioni di tipo policentrico.
Nota 3: Per e-procurement si intende la gestione dei processi delle imprese legati agli approvvigionamenti via Internet, mediante le nuove tecnologie ICT. Tale argomento verrà ampiamente trattato nel quarto capitolo.
Nota 4: La configurazione ed evoluzione di un e-market, costituito da complesse strutture di governo delle transazioni, appaiono strettamente complementari alle caratteristiche della rete istituzionale, che presiede all’organizzazione sociale delle attività economiche.
Nota 5: Nel quarto capitolo si presenterà uno studio di caso nel quale si analizzerà un’impresa che si occupa tra l’altro di svolgere servizi in outsourcing, per le sue aziende-clienti.

3.5. Il marketing on-line delle PMI italiane

Secondo il Rapporto Annuale dell’ISTAT sulla situazione del Paese nel 2000 (ISTAT, 2001a, pp.158-162), negli ultimi anni la diffusione dell’ICT nelle piccole e medie imprese è notevolmente aumentata in tutta Europa, in particolare è cresciuto l’utilizzo del computer, di Internet e delle forme di comunicazione attraverso la Rete (posta elettronica, chat…), inoltre tutti i settori utilizzano il www. Tuttavia, sussistono ancora ostacoli all’e-commerce.
Più precisamente, l’investimento iniziale per introdurre le nuove tecnologie ed il commercio elettronico nelle piccole e medie imprese tende ad essere proporzionalmente maggiore che nelle grandi.
Ugualmente, il timore di “un’insufficiente massa critica di utilizzatori del commercio elettronico”, la carenza delle figure professionali specializzate nelle attività legate all’e-commerce e la difficoltà di intendere le diverse lingue utilizzate in Internet possono disincentivarne l’uso.
Altri ostacoli sono rappresentati dai problemi logistici, dall’incertezza delle condizioni contrattuali e dei pagamenti.
A marzo 2000, per studiare quanto l’attenzione delle piccole e medie imprese italiane sia rivolta al web con lo scopo di aumentare le vendite, Freepping ha realizzato una ricerca mediante 1000 interviste telefoniche ad altrettante PMI, con fatturato tra i 2,5 e i 25 milioni di euro in Italia: il 60% di esse era composto da aziende di produzione, mentre il restante 40% da imprese di servizi.
Si è riscontrata una forte attenzione nei confronti del web: il 59% dichiara di avere un sito Internet, mentre il 16,5% sostiene di averne uno in costruzione o in progettazione. Quindi, in totale, circa il 75% degli intervistati è presente sul web o vuole esserlo in tempi molto contenuti.

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Fonte: nostra elaborazione dati Freepping

Le aziende sono convinte che la Rete possa creare occasioni di sviluppo, tuttavia la conoscenza multimediale non é tanto diffusa da suggerire utilizzi diversi dalla creazione di un sito aziendale, per lo più una brochure on-line.
Questo probabilmente perché l’approccio ad Internet, in questi primi anni di diffusione di massa é stato di natura informatica (non attraverso tecniche di marketing o di comunicazione).
Gli investimenti e le competenze tecniche necessarie per la gestione delle attività sul web non sono ritenuti un ostacolo: rispettivamente soltanto l’11% e l’8,2% delle imprese dichiarano di avere difficoltà su questi fronti; maggiori i problemi legati al timore di non ottenere sufficiente visibilità e visitatori per il sito e ad una scarsa motivazione dell’azienda.

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Fonte: nostra elaborazione dati Freepping

In generale, le aziende intervistate dimostrano una visione non strategica di Internet, fin dalla sua prima diffusione: il web é nato per far giungere lo stesso messaggio a più persone contemporaneamente.
La richiesta delle PMI, emersa con chiarezza, é di segmentare il mercato, inviando messaggi specifici a target ristretti e identificabili, per aumentare il numero di visitatori nei propri siti.
Un terzo degli intervistati ritiene la Rete uno strumento più utile alle piccole e medie imprese che alle grandi, dato che queste ultime, diversamente dalle prime, hanno anche altri canali per farsi conoscere. Tuttavia, più della metà del campione non considera Internet un mezzo agile, particolarmente fruibile da aziende innovatrici come le PMI.

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Fonte: nostra elaborazione dati Freepping

Secondo Mariotti e Sgobbi (2000), l’abbattimento dei costi permette alle piccole e medie imprese di diversificare geograficamente i propri mercati di sbocco senza quei vincoli finanziari, imposti da una rete “fisica” di vendita e di marketing. Anche nelle grandi aziende la scelta del canale elettronico porta al ridimensionamento dei costi operativi e di gestione.
Tale riduzione è anche legata a processi di razionalizzazione, tra cui il massiccio ricorso all’outsourcing ed al taglio delle figure professionali divenute oramai obsolete a causa dell’introduzione dell’e-commerce.
Un esempio indicativo di questa reingegnerizzazione¹ dei processi aziendali portata dal commercio elettronico è dato dalla gestione commerciale della Cisco Systems, nella quale gli ordini on-line, raccolti ed elaborati attraverso il software IPC (Internetworking Product Center) della società, rappresentano circa l’80% del fatturato dell’impresa.
Infatti, l’e-commerce ha diminuito sostanzialmente il tempo necessario alla raccolta, alla verifica ed all’espletamento degli ordini ed il personale assegnato a svolgere tali compiti.
E’ proprio per questo che, secondo Campodall’Orto e Scalfi (2000), dal punto di vista occupazionale, è importante rilevare che il commercio elettronico riduce anche i costi di personale delle imprese, nel senso che la produttività del servizio on-line richiede un organico di alto livello, ma numericamente minore.
A proposito, sempre la Cisco afferma che attraverso la realizzazione del proprio sito web, l’azienda ha potuto evitare di assumere 1000 nuovi addetti nell’area vendita e post-vendita.
Emerge chiaramente che nel breve periodo il commercio elettronico impedisce la creazione di nuovi posti di lavoro a bassa qualificazione nelle imprese ICT. Anche per questo, riuscire ad integrare lavoro “virtuale” e “reale” (ad esempio, valorizzando la multicanalità, le forme contrattuali flessibili, la formazione e il ruolo dei nuovi intermediari) sarebbe ancor più rilevante.
La ricerca di Freepping rileva anche un limite delle aziende che si avvicinano ad Internet senza una chiara strategia: qualunque strumento venga da esse utilizzato, è vissuto in maniera statica. Una volta attivato, il sito non viene aggiornato con frequenza, sono scarsamente presenti elementi di interattività con i visitatori e, se ci sono, non vengono utilizzati correttamente dalle aziende. In altre parole, non esiste una cultura del mezzo e non se ne conoscono esattamente le potenzialità.
Il 30% delle aziende intervistate dichiara di aver destinato ad Internet una voce specifica del proprio budget 2000. La percezione di spesa necessaria per realizzare un sito non appare elevatissima: la metà delle PMI esaminate reputa sufficiente una cifra inferiore a 5.000 €, confermando che non esiste una sufficiente coscienza degli investimenti necessari.
Il 35% non ha fornito risposte in merito: si tratta degli indecisi, che non hanno ancora preso posizione nei confronti del nuovo mezzo. Tale situazione è illustrata dalla tabella 3.15.

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Fonte: nostra elaborazione dati Freepping

Vi sarebbe disponibilità ad aumentare gli investimenti, se fossero offerti strumenti o percorsi in grado di rendere chiaramente percepibili i risultati dell’utilizzo di Internet, dato che il web è percepito come un mezzo di comunicazione sicuramente più economico rispetto ai tradizionali.
In conclusione, il commercio elettronico è un’occasione formidabile per agganciare veramente le PMI italiane alla globalizzazione.
Se esse conquisteranno nuovi mercati, riducendo i costi di gestione e concentrandosi sulla qualità dei prodotti, il tradizionale problema delle dimensioni, da sempre limite del nostro sistema industriale (nel quale, infatti, le grandi imprese sono poco numerose), potrebbe essere compensato dalla maggiore elasticità che l’era Internet offre alle imprese.

Nota 1: Tale argomento è stato già introdotto in linea teorica nel capitolo precedente, al paragrafo 2.1.

4°: IL CASO UNITEC

4.0. Introduzione

In questo capitolo, si intende riportare i risultati di una ricerca empirica da noi condotta su un’azienda, l’UNITEC¹ , che offre servizi alle imprese ed, in particolare, si occupa di e-procurement in outsourcing (che rientra nel B2B), attività assolutamente innovativa, che è fondamentale definire sin da ora.
Con l’espressione procurement² si intendono tutte quelle attività legate alla gestione degli approvvigionamenti. L’e-procurement³ indica la possibilità per le imprese di gestire i processi aziendali legati agli approvvigionamenti attraverso l’informatizzazione ed Internet.
Questo consente di connettersi istantaneamente con i fornitori e le imprese-clienti e di emettere richieste di fornitura ed ordini on-line, rispondendo, quindi, alla crescente esigenza di ottimizzare i tempi e le procedure.
Il procurement in outsourcing4 prevede la delega ad un partner esterno (il c.d. outsourcer) delle attività di approvvigionamento e di quelle ad esso collegate, per conseguire il consolidamento gestionale ed amministrativo di tutte le attività.
Ad esempio, un’impresa potrebbe trasferire la gestione di 200 fornitori all’UNITEC, diminuendo il numero delle fatture mensili in ingresso e dei pagamenti da effettuare da 200 ad uno.
L’e-procurement in outsourcing5 delega le attività di approvvigionamento all’outsourcer per mezzo delle nuove tecnologie ICT e di Internet. Oltre al consolidamento gestionale ed amministrativo, si ottiene anche il consolidamento degli e-catalogs6 e la possibilità per l’azienda-cliente di passare dalla gestione convenzionale su base documentale cartacea all’e-procurement, senza dover mantenere due diverse strutture per le due differenti modalità di gestione (tradizionale ed elettronica) della stessa attività. Questo porta un vantaggio multiplo: la diminuzione del materiale cartaceo, delle fatture, dei pagamenti e, soprattutto, l’eliminazione della struttura gestionale tradizionale.
Ad esempio, un’impresa-cliente può dare in gestione all’UNITEC 200 fornitori con e-catalog e 200 che ne sono privi, poiché non commerciano ancora on-line o non hanno la possibilità di fornirne uno per motivi tecnico-commerciali. Il compito dell’UNITEC è quello di realizzare per il proprio cliente un catalogo elettronico personalizzato, che includa i prodotti di tutti i 400 fornitori utilizzati.
Il cliente evita così di dover mantenere al suo interno due strutture con modalità diverse di conduzione (una on-line ed una cartacea), passando, quindi, alla gestione completamente elettronica dei documenti.
Nel corso del capitolo, si preciserà perché l’UNITEC si propone come gestore di questo e di altri servizi e, soprattutto, si studieranno la quantità, il tipo e la qualità dei posti di lavoro che l’azienda oggetto della nostra indagine offre al proprio personale.

Nota 1: All’inizio di questo capitolo, vorrei porgere un particolare ringraziamento al sig. Vincenzo Marino, fondatore ed amministratore delegato dell’UNITEC, per la collaborazione offerta e per la disponibilità dimostrata nel fornirci i dati relativi al livello di tecnologie ed al tipo di occupazione della sua azienda.
Nota 2: Procurement significa letteralmente approvvigionamento.
Nota 3: L’espressione e-procurement indica l’approvvigionamento elettronico.
Nota 4: Procurement in outsourcing significa letteralmente approvvigionamento terziarizzato.
Nota 5: L’espressione e-procurement in outsourcing indica l’approvvigionamento elettronico terziarizzato.
Nota 6: Gli e-catalogs sono dei cataloghi elettronici, che offrono la visualizzazione on-line dei prodotti che si possono acquistare in Rete, presso il fornitore che li propone.
Nota Unitec: I dati numerici sono stati adattati per esigenze statistiche.

4.1. L’UNITEC

L’UNITEC-D High Tech Industrieprodukte Vertriebs GmbH¹ è una società internazionale a responsabilità limitata con sede ad Augsburg in Germania, specializzata nell’e-procurement, nel supply chain management in outsourcing² e nel brokeraggio industriale internazionale³.
Nel 1990 un imprenditore, il sig. Vincenzo Marino, l’ha costituita per fornire assistenza qualificata ad imprese utilizzatrici di prodotti tecnici industriali tedeschi.
Già dagli anni iniziali dell’attività, il management aziendale ha sempre perseguito il miglioramento continuo della struttura organizzativa, specialmente riguardo all’efficienza dei processi interni.
Fin dai suoi esordi, l’UNITEC ha acquisito una sempre maggiore competitività, studiando e sviluppando continuamente servizi innovativi per i suoi clienti, tanto da raggiungere la leadership nel proprio segmento di mercato e diventare un’azienda di riferimento del settore.
L’uso della Rete e delle nuove tecnologie ICT ha portato l’UNITEC già nel 1995 a realizzare la completa informatizzazione del workflow aziendale4 : oggi l’UNITEC utilizza un sistema software ERP (Enterprise Resource Planning), che si occupa della pianificazione delle risorse dell’impresa ed è basato interamente sulle sue esigenze specifiche.
Il sistema ERP le consente di gestire in modo informatizzato tutti gli step relativi al processo di approvvigionamento, conseguendo risparmi di gestione, dovuti alla drastica riduzione delle interferenze di processo: ciò eleva la qualità dei servizi di cui beneficiano i clienti, che raggiunge livelli prossimi all’errore zero.
Quando l’UNITEC ha sviluppato l’ERP non esisteva un sistema simile sul mercato.
Oggi l’azienda continua ad utilizzarlo, adeguatamente aggiornato, dato che è tarato appositamente sulle sue attività e non è di tipo generale come quelli attualmente in commercio.
Nel 1997 il reparto dell’informatizzazione si è evoluto in una società indipendente, l’UNITEC Services & Web, con sede in Italia, a Sabaudia (LT). L’UNITEC S&W è un’azienda informatica per lo sviluppo di software e con servizi di Internet providing e di ASP (Application Services Provider) con autorizzazione ministeriale.
Verso la fine degli anni ’90, l’UNITEC lascia lo schema organizzativo verticale gerarchico per una struttura di tipo matriciale, più moderna, caratterizzata dalla divisione del personale in team, dal miglioramento dell’efficienza delle attività e dall’aumento della motivazione del personale5.
La qualità e l’innovazione delle procedure dell’UNITEC sono oggi riconosciute dal certificato ISO 9001; inoltre, l’impresa è membro di varie organizzazioni tedesche: il DIN, il NAM e il VDI6.
Oltre alle sedi di Augsburg e di Sabaudia, l’UNITEC nel 1999 ne ha aperta un’altra in Brasile, in modo da essere così più vicina ai propri clienti ed ai loro stabilimenti del Sud America.
Infatti, risulta che il Brasile è lo Stato latinoamericano con la maggior presenza di imprese europee costruttrici di automobili, molte delle quali sono clienti dell’UNITEC.
Inoltre, il Brasile offre innumerevoli opportunità per allacciare nuovi contatti.
Così l’UNITEC South America cura le attività delle imprese-clienti brasiliane e delle nazioni confinanti, direttamente in loco.
In tutto, le tre aziende hanno centottanta dipendenti, di cui cento in Germania, sessantacinque in Italia e quindici in Brasile.

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Fonte: nostra elaborazione dati UNITEC

Inoltre, l’UNITEC negli anni ha aperto dei punti di rappresentanza e di supporto in numerosi Paesi europei (Belgio, Francia, Regno Unito, Russia, Spagna, Turchia) e nelle regioni italiane dove sono presenti suoi clienti.
Tali strutture offrono un’occupazione ad un centinaio di persone, che rappresentano l’azienda.
In genere, sono dei liberi professionisti, coi quali si stringe un rapporto di collaborazione: i loro servigi sono richiesti prevalentemente nell’ambito di progetti industriali.
Ad oggi l’UNITEC è il primo outsourcer che, per l’estensione dei suoi servizi a livello internazionale, propone ed attua la terziarizzazione completa delle attività di approvvigionamento aziendale, incluse quelle amministrative e logistiche. Tale servizio è riferibile ad ogni tipo di approvvigionamento (materie prime, semilavorati, macchinari industriali e relative parti costitutive).
Attualmente l’UNITEC gestisce per i suoi clienti circa 77.000 prodotti (compresi i componenti tecnici per impianti industriali ed i c.d. non-production goods 7) di 4750 aziende produttrici. L’attività in questione non è limitata ad un particolare settore industriale, né a specifiche classi merceologiche dei materiali da approvvigionare, perché segue le necessità esposte dai richiedenti.
Le aziende-clienti dell’UNITEC hanno deciso di adottare i suoi servizi anche perché essa ha saputo sviluppare un’applicazione modulare dell’outsourcing facilmente introducibile nelle strutture aziendali, configurata sulle loro esigenze, che consente il raggiungimento di risultati immediatamente riscontrabili.
I moduli sono tre e sono stati ideati per essere applicati in ordine sequenziale.
Il primo modulo delega all’UNITEC la gestione delle evasioni delle richieste di approvvigionamento, ma la proprietà delle merci non è trasferita; il secondo aggiunge al primo la gestione della logistica e delle attività amministrative, comportando il trasferimento della proprietà delle merci; il terzo estende l’outsourcing alla gestione del magazzino e alla banca dati degli articoli. Le attività sono immediatamente trasferibili ed i risultati subito quantificabili8.
Molti gruppi industriali internazionali sono interessati all’utilizzo dei servizi e dei concetti proposti dall’UNITEC.
Tra i clienti dell’azienda, troviamo Audi, Bmw, aziende del gruppo Fiat (come l’Iveco), Ford, Piaggio e Porsche per l’industria automobilistica; Enichem, Goodyear, Michelin e Procter & Gamble per l’industria chimica; Siemens, Whirpool e Zanussi per gli elettrodomestici ed altre come MAN Roland, Mondadori e San Pellegrino.
In particolare, il MAN Group, dopo alcune fasi di progetti pilota, ha già introdotto in due aziende del gruppo (MAN Roland Druckmaschinen AG e MAN B&W Diesel AG) l’outsourcing degli approvvigionamenti delegando completamente all’UNITEC la gestione di ben 400 fornitori. Riscontrati i risultati positivi, anche all’interno delle altre società del gruppo sono in corso nuovi progetti pilota.
Un’altra azienda che utilizza i servizi resi dall’UNITEC in alcune imprese da essa gestite è l’Iveco, in particolare il suo dipartimento Eurofire ha delegato all’UNITEC la gestione di 300 fornitori.
Vediamo adesso il motivo per cui le aziende scelgono di collaborare con l’UNITEC.
Una difficoltà che tutte le imprese devono affrontare è la variabilità delle attività in relazione al ciclo congiunturale, che oscilla passando da momenti di massimo a quelli di minimo (in particolare, si pensi ad aziende che lavorano stagionalmente, come quelle produttrici di gelati o panettoni). Osserviamo a riguardo la tabella 4.2.

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Fonte: nostra elaborazione dati UNITEC

Questa sinusoide rappresenta il ciclo congiunturale al quale sono sottoposte tutte le aziende. L’area racchiusa dalla curva indica la quantità di attività che le strutture dell’impresa devono svolgere in ogni momento del ciclo. Per esemplificare possiamo supporre che questo diagramma si riferisca alle attività dell’ufficio acquisti. In funzione della sua struttura (e, quindi, dei mezzi e degli addetti), questo reparto può erogare all’interno dell’azienda un numero massimo predefinito di servizi. Tale livello è raffigurato nel grafico dalla retta posta al livello di attività pari a 100. L’area ad essa sottesa indica la quantità di servizi erogabili. Si rileva, inoltre, che in alcuni periodi il numero di servizi richiesti a questo reparto, per questioni economiche imprenditoriali e/o congiunturali, è superiore al massimo erogabile (attività comprese tra il livello 100 e 200).
Dal diagramma emerge che la struttura analizzata è efficiente solo in quattro momenti del periodo di tempo considerato (corrispondenti ai punti A, B, C e D).
Tale situazione crea gravi danni ai reparti a monte ed a valle della struttura analizzata, in quanto i tempi di attesa delle risposte aumentano. D’altro canto, normalmente l’azienda non tende a sovradimensionare queste strutture (oltre livello di attività 100) per non avere un eccesso di costi nei momenti di congiuntura negativa.
Questa situazione costituisce il campo ideale per l’applicazione dell’outsourcing dei processi aziendali.
Nel caso specifico dell’azienda trattata nella nostra indagine, il servizio di approvvigionamento elettronico in outsourcing offerto dall’UNITEC permette alle imprese-clienti di avere un rapporto tra costo ed obiettivo di costo (efficacia) dei propri reparti pari ad uno, nella maggior parte del ciclo congiunturale. L’outsourcer si preoccupa di assorbire i picchi di tali attività, che (se non venissero gestiti nei tempi richiesti) provocherebbero, costi aggiuntivi negli altri reparti dell’azienda.
E’ proprio nei momenti di picco del ciclo congiunturale che i servizi proposti dall’UNITEC sono più convenienti e vantaggiosi. L’UNITEC, tramite l’e-procurement, si occupa di gestire tutte quelle attività che le imprese sono in grado di svolgere autonomamente soltanto sotto il vincolo di costi molto elevati. In questo modo l’azienda-cliente dell’UNITEC, dando in outsourcing la gestione delle attività operative, trasforma i costi da sostenere per il loro svolgimento da fissi a variabili. Questi ultimi seguono l’andamento congiunturale dell’impresa.
L’UNITEC così permette alle proprie aziende-clienti di proporzionare i costi alle necessità, tramutando la parte più costosa delle procedure interne di approvvigionamento in servizi da poter acquistare sul mercato9.
In conclusione, più le procedure di approvvigionamento sono gestite con l’integrazione degli acquisti e maggiore sarà il ritorno economico, tramutando i costi in risorse.
Con la terziarizzazione, le imprese-clienti incrementano l’efficacia delle strutture preposte per le attività aziendali, aumentando così il fatturato ed assicurando e sviluppando l’occupazione.
La situazione dell’outsourcer, invece, è rappresentata nella tabella 4.3.

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Fonte: nostra elaborazione dati UNITEC

Questo diagramma mostra come l’outsourcer, l’UNITEC, è sottoposto in misura minore rispetto ai clienti alle variazioni congiunturali del mercato, poiché è in grado di sfruttare gli spostamenti temporali dei cicli congiunturali delle proprie imprese-clienti, riuscendo in tale maniera ad ottimizzare le sue risorse.
Tale situazione fa sì che l’UNITEC sia capace di distribuire tale valore aggiunto ai suoi clienti.
Dalla figura è altresì evidente come ognuno di essi non possa assolutamente ottimizzare il proprio ciclo congiunturale senza la collaborazione ed il sostegno dell’outsourcer.
Grazie all’e-commerce ed alle nuove tecnologie ICT, l’UNITEC azzera gli sprechi e, trasformandoli in risorse, offre all’impresa-cliente la possibilità di dedicarsi al proprio core business e di accrescere il proprio valore aggiunto.
L’UNITEC offre ai propri clienti alcuni servizi innovativi: l’outsourcing degli approvvigionamenti e la fornitura integrata.
Con l’outsourcing degli approvvigionamenti, l’UNITEC rileva la gestione degli attuali fornitori del cliente, riducendone il numero virtualmente e gestionalmente ad uno. Con tale tipo di servizio il cliente dà risalto al rapporto col fornitore, mantenendolo vivo in termini tecnici e di prodotto.
Tuttavia, la gestione amministrativa e logistica di tale relazione passa all’UNITEC.
In questa maniera, l’impresa-cliente non perde il know-how che il fornitore ha assunto circa le proprie esigenze ed, inoltre, può continuare a gestire quei prodotti che lo stesso fornitore aveva studiato appositamente per lei.
La fornitura integrata, invece, è un servizio commerciale offerto dall’UNITEC, che agisce per conto dell’azienda-cliente come un broker. Così operando, riesce a non far crescere il numero dei fornitori o addirittura a ridurlo.
In questo caso, il cliente richiede all’UNITEC che il prodotto sia conforme soltanto ad alcune specifiche tecnico-economiche.
Questi due differenti tipi di servizio offerti portano a gradi di consolidamento delle attività differenti, secondo le esigenze del cliente.
Per quello che riguarda l’outsourcing dei processi di approvvigionamento, l’UNITEC consente ai propri clienti di risparmiare il 50% dei costi relativi alla loro gestione.
Generalmente, il processo di approvvigionamento è effettuato dalle imprese in modo lineare, addizionando le spese totali dei vari centri di costo10 e ricavando così il costo dell’approvvigionamento.
Infine, per capire l’incidenza della contabilità sul costo di un singolo prodotto, l’azienda divide il costo generale per il totale dei beni o servizi da essa generati. Una contabilità ordinaria aziendale lineare non permette assolutamente di calcolare il costo del singolo processo di approvvigionamento, né tanto meno consente di razionalizzarlo.
Per riuscire in tale intento, l’UNITEC (specializzata nella diminuzione dei costi dei processi di approvvigionamento, in particolare dei beni di fascia B e C) propone alle proprie imprese-clienti un’analisi di tipo c.d. ABC (Activity Based Costing).
Questa consiste in una valutazione dei costi di produzione, basata sulle attività effettivamente svolte, al fine di controllare e misurare le spese ed i tempi delle varie fasi del processo aziendale.
L’ABC è alla base della scelta di un’azienda di affidare in outsourcing una parte o la totalità delle attività legate alla gestione dei fornitori. Vediamo la tabella 4.4.

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Fonte: nostra elaborazione dati UNITEC

Ogni colonna della tabella corrisponde ad un centro di costo; i rettangoli all’interno di esse individuano specifiche attività; al centro di questi è riportato il tempo necessario per compierli (ad esempio, ore).
Il processo di approvvigionamento (workflow) è rappresentato dalla linea che collega le attività coinvolte per la sua gestione (ad esempio, reparto produzione, ufficio acquisti, contabilità, magazzino).
Per la contabilità ABC proposta dall’UNITEC, il costo di approvvigionamento è dato dalla somma dei tempi dei passi effettivamente compiuti nel processo di approvvigionamento moltiplicato per il costo industriale orario unitario.
Nell’esempio, il costo del processo di approvvigionamento esemplificato sarà: ABC = (1+4+2+6+6+1+2) 5€ = 22 * 5€ = 110€.
L’ABC consente di arrivare all’outsourcing, che libera le imprese dalle operazioni che hanno basso valore aggiunto.
Inoltre, essa dà alle aziende la possibilità di misurare i tempi, i costi ed il valore aggiunto di ogni attività e, quindi, di avvantaggiarsene, permettendo di contabilizzare gli effetti della reingegnerizzazione.
Proseguiamo, quindi, la nostra indagine presentando adesso il servizio di fornitura integrata. La fornitura integrata si occupa di tutte le procedure e le operazioni necessarie per far pervenire le merci (conformi alle specifiche tecnico-economiche richieste dalle aziende-clienti) al momento desiderato, con un unico documento.
Quindi, si riducono i costi di ogni fornitura. Più sono le procedure gestite con la fornitura integrata, più saranno i benefici derivanti dal recupero di efficienza.

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Fonte: UNITEC-D, 2001

La tabella 4.5 illustra il flusso nella sua sequenza logico-temporale: dall’integrazione delle richieste si passa a quella delle offerte per arrivare a quella degli ordini.
Dopo la spedizione dei materiali si ha l’integrazione dei trasporti, delle bolle di consegna, delle fatture e dei pagamenti.

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Come mostra la tabella 4.6, i risparmi sul costo di gestione interno degli approvvigionamenti per l’azienda-cliente sono notevoli.
Con l’integrazione degli acquisti si compattano le procedure, si riducono i costi di processo, creando economie di scala.
Inoltre, si fanno scaturire tutte quelle condizioni che migliorano l’efficienza e si liberano risorse da investire.
La fornitura integrata, inoltre, snellisce le procedure dell’amministrazione, permettendo di dedicare più risorse al core business.
La situazione amministrativa è illustrata nelle tabelle 4.7 e 4.8.
Nella prima vediamo che con uno schema di approvvigionamento di tipo tradizionale, una qualsiasi azienda deve sopportare costi amministrativi per ogni singolo rapporto intrattenuto con ognuno dei propri fornitori.

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Fonte: UNITEC-D, 2001.

Nella seconda tabella, la 4.8, invece, si nota come il numero dei rapporti e, quindi, i relativi costi amministrativi possano essere ridotti (o addirittura eliminati), delegando in parte (od in tutto) la gestione del processo di approvvigionamento all’UNITEC.

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La fornitura integrata offre tra l’altro dei miglioramenti logistici, affrontiamo pertanto la questione del trasporto fisico delle merci.
L’UNITEC si serve della collaborazione di aziende specializzate nella logistica, con cui ha stipulato degli accordi.
Per valutare le variabili connesse ai trasporti, l’UNITEC ha ideato un software che tra l’altro compara le scadenze per le forniture al cliente, i termini di consegna garantiti dai fornitori ed i tempi logistici di trasporto.

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Fonte: UNITEC-D, 2001

La figura 4.9 illustra il sistema di fornitura integrata a livello temporale.
L’impresa-cliente concorda con l’UNITEC le date per il recapito delle merci, programmando nel tempo lo scaglionamento delle consegne.
In tal modo, gli arrivi sono concordati, le operazioni di magazzino vengono concentrate e velocizzate, i tempi morti risultano eliminati: aumentando l’efficienza delle strutture, le attività di controllo ed i documenti di consegna si minimizzano.
Grazie al migliore flusso logistico, anche i costi di trasporto diminuiscono.
Questo è anche collegato al fatto che attraverso gli ordini integrati si riduce considerevolmente il numero di volte in cui un’impresa si rivolge a vettori, sostituendo piccole e frequenti forniture (a costi relativamente elevati) con quantità di merce maggiori, trasportate a prezzi ottimizzati11.

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Fonte: UNITEC-D, 2001

Dalla tabella 4.10 emergono i vari tipi di rapporti commerciali dell’UNITEC. Ricevute le richieste di fornitura, l’UNITEC elabora le offerte dei fornitori selezionati, secondo le indicazioni ricevute dai suoi clienti, inviando anche più richieste (Anfragen) a singoli produttori.
Ricevute le offerte dei fornitori interpellati (Angebot), l’UNITEC le valuta, selezionando le migliori, e prepara l’offerta da fare al cliente, applicando un mark up sui prezzi di acquisto, a copertura dei costi di gestione dei servizi ad essa richiesti. Quindi, il cliente può scegliere se accettare o rifiutare le offerte presentate.
Avuta l’accettazione del cliente con l’ordine definitivo, l’UNITEC invia i propri ordini (Bestellungen) ai fornitori, che provvedono a consegnare la merce; i rapporti dell’UNITEC-D coi fornitori si concludono con la loro accettazione scritta degli ordini (Auftragbestätigungen).
Le merci destinate ai clienti sono sottoposte ad una procedura di consolidamento logistico, sia presso l’UNITEC sia presso nodi logistici accuratamente selezionati (tabella 4.11).

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Fonte: UNITEC-D, 2000

Il consolidamento logistico permette la riduzione dei costi di trasporto e dei relativi documenti amministrativi: proprio questo è uno dei punti a valore aggiunto dei servizi offerti dall’UNITEC.
Riguardo alla gestione del magazzino nel tempo, la riduzione delle scorte praticata dalla maggioranza delle aziende ha portato economie finanziarie, ma ha prodotto una crescita esponenziale delle procedure di approvvigionamento ed un’esplosione dei costi correlati, tanto che l’efficienza dei servizi interni ne è risultata gravemente compromessa.
A ciò va aggiunta la necessità di relazionarsi di continuo con più fornitori, data la continua specializzazione nella produzione e la conseguente sempre maggiore differenziazione dei beni. La soluzione dell’UNITEC è l’esternalizzazione dell’over-head gestionale12 , in particolare degli approvvigionamenti, grazie all’integrazione degli acquisti, che tra l’altro permette la razionalizzazione delle scorte stoccate.
Vediamo a riguardo le tabelle 4.12, 4.13 e 4.14.

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Fonte: UNITEC-D, 2001

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Fonte: UNITEC-D, 2001

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Fonte: UNITEC-D, 2001

Dalla tabella 4.12, si rileva che negli anni il trend della quantità delle scorte stoccate nel magazzino è stato contrassegnato da una loro continua diminuzione per la necessità di economizzare e di ridurre il valore in esso vincolato.
Inoltre, tutto ciò ha causato un aumento evidente dei costi di gestione relativi, dato che in tal modo gli ordini di fornitura sono divenuti assai più frequenti (tabella 4.13).
L’UNITEC ha semplicemente costatato questa situazione e per risolvere tale dispendioso inconveniente per le sue imprese-clienti, ha deciso di proporre tra i propri servizi anche uno per l’ottimizzazione della gestione del magazzino (tabella 4.14).
A questo proposito, l’UNITEC offre anche un’applicazione estremamente avveniristica detta di Magazzino Virtuale, il quale sfrutta i diversi magazzini di uno o più gruppi industriali, condividendo logisticamente le loro scorte materiali e permettendo l’accesso tra i partecipanti.
Il Magazzino Virtuale è costituito fisicamente dal complesso dei magazzini posseduti dalle aziende-clienti dell’UNITEC, che intendono condividere tra loro e, quindi, ridurre le scorte in essi contenute.
Tutte le imprese coinvolte nella catena del valore ricavano notevoli economie.
In tale maniera, è possibile ridurre sensibilmente le scorte, ma la quantità di bene disponibile aumenta, poiché le tecnologie di rete consentono la condivisione delle informazioni e la conseguente razionalizzazione della gestione delle scorte.
La realizzazione di tale tipo di magazzino conferma quanto sostenuto nel libro di Jeremy Rifkin “L’era dell’accesso: la rivoluzione della new economy”.
Egli, infatti, sostiene che nel futuro non si mirerà più a possedere i beni, ma semplicemente a potervi accedere.
L’UNITEC si occupa di gestire tutti i dati riguardo a ciascuno dei magazzini ed alle attività relative ai riapprovvigionamenti ed agli acquisti comuni (buyer aggregation).
Va detto che esistono beni e servizi utilizzati da tutte le aziende, indipendentemente dal loro core business.
Rilevando ciò l’UNITEC ha concluso che un discreto livello di condivisione delle merci può essere presente anche in imprese appartenenti a settori differenti, come evidenziato dalla tabella 4.15.
L’area di intersezione rappresenta le componenti condivise dalle varie industrie.

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Fonte: UNITEC-D, 2001

Il Magazzino Virtuale trasforma i beni fisici in informazione logistica condivisa e contribuisce alla coordinazione di attori economici industriali, concentrati in un’area territoriale definita.
Infatti, per una gestione ottimizzata della logistica delle merci, è conveniente la vicinanza geografica delle aziende.

Nota 1: L’espressione High Tech Industrieprodukte Vertriebs indica genericamente il settore di cui si occupa l’azienda, vale a dire la “commercializzazione di prodotti industriali ad alta tecnologia”. La sigla tedesca GmbH (Gesellschaft mit beschrankter Haftung) significa letteralmente società con responsabilità limitata; equivale all’italiana s.r.l.
Nota 2: Il supply chain management in outsourcing consiste nella gestione della catena di fornitura in modo terziarizzato.
Nota 3: Il brokeraggio industriale internazionale dell’UNITEC si occupa della ricerca e dell’acquisto per il cliente a livello mondiale di informazioni, beni o servizi specializzati.
Nota 4: Per workflow aziendale si intende il processo produttivo dell’impresa, suddiviso in vari step successivi. Grazie alla sua informatizzazione si sono ottimizzati i tempi e la qualità di ogni singolo passaggio di tale processo.
Nota 5: Tale cambiamento sarà illustrato dettagliatamente nel paragrafo 4.3.
Nota 6: Il DIN (Deutsches Institut für Normung, letteralmente Istituto tedesco per la standardizzazione) è un organo tedesco riconosciuto a livello mondiale, che definisce le norme di sicurezza relative sia alla costruzione, sia alla gestione degli impianti industriali di produzione. Invece, il NAM (Normenausschuss Maschienenbau) è la commissione regolamentatrice dei costruttori di macchinari industriali ed il VDI (Verein Deuscher Ingenieure) è l’Associazione degli ingegneri tedeschi.
Nota 7: I non-production goods sono quei beni essenziali all’attività produttiva, che però non vanno a comporre fisicamente il prodotto finito, come pezzi di ricambio per gli impianti di produzione di numerose tipi di industrie.
Nota 8: I risultati subito quantificabili sono anche detti win-to-win, letteralmente guadagnare per guadagnare. In altre parole, chi offre servizi ai clienti ne riceve un utile, ma fa guadagnare anche chi li riceve. E’ in tale maniera che l’UNITEC permette alle sue imprese-clienti di controllare facilmente i vantaggi che essa fornisce con la sua opera.
Nota 9: A riguardo si parla di BPO (Business Process Outsourcing), vale a dire della terziarizzazione dei processi di business.
Nota 10: Con tale locuzione ci si riferisce ai vari settori dell’azienda (come produzione, progettazione, amministrazione, distribuzione…), che per svolgere la loro attività devono sostenere dei costi che vanno inseriti nella contabilità aziendale ordinaria.
Nota 11: Il ricorso a corrieri espressi per consegne urgenti è limitato ai casi in cui il cliente lo richieda esplicitamente.
Nota 12: Per over-head gestionale si intendono quei sovraccosti di gestione generati da una situazione di over-flow, vale a dire di traboccamento. Si veda a riguardo la figura 4.16.

4.2. L’UNITEC e l’ICT

In questo paragrafo descriveremo l’evoluzione tecnologica dell’azienda oggetto del nostro caso pratico. Nel 1990 l’UNITEC nasce in Germania, gestendo le proprie attività convenzionalmente.
In quel periodo l’azienda utilizzava già le tecnologie avanzate allora esistenti, i primi personal computer, collegati tra loro tramite le prime reti a livello locale, le c.d. LAN (Local Area Network)¹ , che permettevano agli elaboratori elettronici dell’azienda di essere collegati tra loro, condividendo i dati comuni.
Fino al 1994, sono stati adoperati a supporto di tali attività semplicemente le applicazioni standard del pacchetto Office. Con l’avvento delle banche dati relazionali, l’UNITEC si rende conto della necessità di sviluppare un proprio compartimento informatico, in particolare per la gestione dei processi dell’azienda. Così con una propria divisione di programmatori, l’UNITEC-D inizia a produrre per le proprie esigenze programmi di Office Automation, dato che in quegli anni non era disponibile sul mercato alcuna applicazione gestionale di tipo standard.
Tale reparto ha studiato tutti i processi convenzionali, ha cominciato a trasformarli gradualmente da cartacei a digitali, reingegnerizzandoli ed ottimizzandoli.
Col passare del tempo e con la specializzazione emerge un continuo miglioramento delle fasi del workflow aziendale: ogni attività viene sempre più suddivisa in passi successivi tanto che ora la gestione interna delle attività è svolta con un vasto processo informatizzato sequenziale. Lo sviluppo delle applicazioni interne è stato accompagnato dalla produzione e dall’offerta di sistemi gestionali avanzati sul mercato anche per le imprese-clienti.
Con l’uso dell’informatica e dell’ICT, l’UNITEC ha aumentato l’efficienza operativa interna, diminuito i costi di gestione (dell’uso del telefono, delle ore di lavoro straordinarie e delle interferenze), ha migliorato l’efficienza del workflow aziendale ed incrementato l’indipendenza delle postazioni di lavoro.
Inoltre, l’ICT è divenuta ormai fondamentale anche nella gestione degli approvvigionamenti (e-procurement), sia per le attività attuali, che per i suoi sviluppi futuri. E’ per questa ragione e per la diffusione delle nuove reti WAN (Wide Area Network) che l’azienda apre a Sabaudia la nuova sede, dedicata ai servizi ed al web².
Il 1998 è l’anno della svolta. L’UNITEC riesce a sviluppare il proprio sistema di informatizzazione al punto da arrivare al c.d. paperless office³.
Questo permette che la gestione aziendale ed, in particolare, il flusso di comunicazione e di approvazione interno all’azienda, si svolgano senza la produzione di documenti cartacei.
Seguendo lo sviluppo delle comunicazioni digitali, l’UNITEC ha costituito un proprio Internet provider4 in modo da gestire ed utilizzare le tecnologie di comunicazione elettronica per rendere i servizi ai clienti ancora più efficienti.
Queste tecnologie le permettono di ridurre il materiale cartaceo, garantendo grazie alla Rete il servizio ventiquattro ore al giorno in qualsiasi parte del mondo.
Sempre nel 1998 la conduzione aziendale e manageriale dell’UNITEC (applicata a processi di fornitura integrata in outsourcing, allo sviluppo di processi gestionali paperless ed ad applicazioni Internet), riceve una certificazione di qualità da parte del Lloyd’s Register Quality Assurance (LRQA). Di fatto, il 1998 vedrà la radicale trasformazione delle modalità operative degli occupati UNITEC ed il cambiamento definitivo della stessa visione del lavoro per l’azienda.
Infine, sempre nel 1998, l’UNITEC S&W presenta la prima applicazione Web esistente di e-procurement industriale in outsourcing: Netsourcing.

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Fonte: UNITEC-D, 2001

Dal 1998 ad oggi si sono viste innumerevoli evoluzioni tecnologiche all’interno dell’azienda, sia di hardware, sia di software.
Nel primo caso, si è riscontrato un incredibile mutamento dei sistemi di comunicazione interni ed esterni, specialmente per migliorare i tempi di risposta dell’azienda. Nel secondo, sono stati adottati a mano a mano programmi e sistemi operativi sempre nuovi e si è giunti alla configurazione di una rete mista (LAN, WAN, Internet, Intranet, Extranet).

Nota 1: Va specificato che nel caso delle LAN, il collegamento dei computer della rete locale non si realizza per mezzo della linea telefonica, ma grazie a cavi ed a fili che uniscono fisicamente le apparecchiature. Questo tipo di rete locale è utilizzato intensamente in ambiti aziendali medio-alti e si è rivelato di straordinaria rilevanza e praticità.
Nota 2: Tra le applicazioni da essa sviluppate, le più innovative sono certamente: il paperless office, il sistema Netsourcing ed il Magazzino Virtuale.
Nota 3: Attualmente, con la fornitura integrata si stima una diminuzione delle componenti gestionali cartacee che sfiora il 100%.
Nota 4: Tale provider eroga applicazioni per l’outsourcing sul Web in modalità ASP (Application Service Provider).

4.3. L’UNITEC e l’occupazione

In questo paragrafo, si tratterà di come si è evoluta l’occupazione dell’UNITEC, sia a livello qualitativo sia quantitativo, dalla sua costituzione fino ad oggi.
Nel 1998, a causa del radicale cambiamento delle modalità operative, sono anche cambiate le stesse conoscenze richieste ai lavoratori, che essenzialmente sono di due tipi: linguistiche e tecniche.
Entrambe si sono evolute col passare del tempo e con l’estensione delle attività aziendali.
Per quanto concerne le lingue, all’interno dell’azienda vi sono dipendenti che ne parlano una sola, ma c’è pure chi ne conosce ben quattro, come illustrato nelle tabelle 4.17 e 4.18.

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Fonte: nostra elaborazione dati UNITEC

Risulta evidente dalla tabella 4.18 che sostanzialmente il personale dell’UNITEC è multilingue, infatti, ben il 95% dei dipendenti dell’azienda parla più di una lingua.
Per quanto riguarda le conoscenze tecniche, queste sono indispensabili per poter dialogare con il cliente e svolgere quell’attività di intermediazione tecnologica propria dell’azienda, sempre tesa al miglioramento del servizio da essa offerto sul mercato.
Oggigiorno serve personale formato nell’ambito tecnologico (strettamente legato ai settori dell’hi-tech) ed anche in quello dell’e-procurement.
E’ richiesta la conoscenza avanzata di vari sistemi informatici e, naturalmente, l’utilizzo delle applicazioni standard di Office.

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Come si può chiaramente notare dalla tabella 4.19, quando è nata l’azienda in Germania erano richieste, in primo luogo, conoscenze di tipo linguistico (era indispensabile sapere almeno tre idiomi) ed, in secondo luogo, di tipo tecnico (per esaudire le richieste dei clienti). Inizialmente, infatti, il compito dell’UNITEC era di semplificare le comunicazioni tra imprese-clienti e fornitori, pertanto, parlare più lingue era un requisito indispensabile per i nuovi assunti.
Col passare del tempo, l’azienda è cresciuta sempre di più sia a livello strutturale sia commerciale e si è specializzata maggiormente nelle proprie attività tecnologiche. E’ così che l’UNITEC si è trovata di fronte alla crescente difficoltà di trovare collaboratori che avessero sia un’ottima conoscenza delle lingue, sia un’approfondita preparazione di tipo tecnico.
E’ proprio partendo da questa considerazione che si è deciso di avviare un processo di reingegnerizzazione delle attività dell’UNITEC.
Così è divenuto possibile dividere le aree di competenza tecnica da quelle di competenza linguistica: ora per i nuovi assunti è sufficiente conoscere ottimamente una lingua per la gestione della propria area di mercato (comunicazione formale) ed una per la comunicazione interna.
Inoltre, l’UNITEC per migliorare ulteriormente la comunicazione al suo interno e coi propri clienti ha costituito un apposito gruppo multilingue.
E’ chiaro che le conoscenze di un’azienda aumentano con il numero dei suoi occupati. Con l’incremento del proprio personale nel tempo, infatti, l’UNITEC si è arricchita delle varie specializzazioni proprie dei suoi nuovi collaboratori. Questo ha portato al miglioramento dei vari reparti dell’azienda.
Tutto ciò consente sicuramente una maggiore facilità nell’assumere personale estremamente qualificato nel suo ambito di competenza e porta dei concreti e consistenti risvolti positivi per quello che riguarda la qualità del servizio offerto dall’UNITEC alle proprie imprese-clienti.
Esaminando alcune proiezioni sui titoli di studio del personale UNITEC, si è riscontrato che esso è costituito per la maggior parte da diplomati (171 su 180 dipendenti) ed in misura minore da laureati (9 su 180), come emerge dalla tabella 4.20.

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Fonte: nostra elaborazione dati UNITEC

Operando un’ulteriore scomposizione della categoria titoli di studio possiamo considerare il tipo di diplomi e di lauree propri dei dipendenti UNITEC¹.
Vediamoli, quindi, più nel dettaglio nelle tabelle seguenti.

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Fonte: nostra elaborazione dati UNITEC

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Dalle tabelle 4.21 e 4.22 emerge che la maggior parte dei diplomati UNITEC proviene dai vari indirizzi (informatica, meccanica, chimica industriale, elettronica e telecomunicazioni, elettrotecnica) dell’istituto tecnico industriale (per il 67%). Se ad essi aggiungiamo i dipendenti provenienti dal liceo scientifico tecnologico (12%), avremo che ben il 79% del personale diplomato dell’UNITEC appartiene al settore tecnico: questo è motivato dalle varie possibili necessità delle imprese-clienti, quando decidono di ricorrere ai servizi forniti dall’UNITEC.
Il restante 21% di dipendenti diplomati ha funzioni amministrative e logistiche all’interno dell’azienda e proviene in parte dagli istituti di ragioneria (13%) e dall’istituto tecnico commerciale (8%).
Vediamo ora nelle tabelle 4.23 e 4.24 i tipi di laurea posseduti dai dipendenti UNITEC.

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Fonte: nostra elaborazione dati UNITEC.

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Fonte: nostra elaborazione dati UNITEC.

Presentiamo qui di seguito il piano di formazione/aggiornamento professionale del personale dell’azienda. Per essere al passo coi tempi e poter mantenere il vantaggio competitivo acquisito, l’UNITEC ha deciso di intraprendere per proprio conto una formazione avanzata dei nuovi assunti nel senso da essa auspicato ed un valido progetto di aggiornamento permanente dei propri dipendenti.
Ha così cominciato a svolgere corsi di formazione, in base alle sue esigenze. Alcuni di essi sono svolti da una società di consulenza esterna, che certifica anche i livelli della qualità della preparazione dei suoi dipendenti, secondo i criteri di formazione del personale ISO 9000.
Inoltre, i capireparto si occupano sia dell’addestramento, sia dell’aggiornamento professionale dei collaboratori aziendali.
I lavoratori già assunti ricevono periodicamente (ogni semestre, in genere) dei manuali di aggiornamento, redatti a cura dell’azienda.
La società della nostra indagine incoraggia, inoltre, i propri dipendenti alla continua ricerca di nuovo materiale didattico, anche attraverso Internet. La Rete diventa così strumento di formazione permanente.
Nel caso in cui un collaboratore trovi informazioni che intenda condividere con altri colleghi, trasmette in modo autonomo via e-mail i link sui quali l’ha reperita ed una breve descrizione del contenuto.
Se il materiale è ritenuto di interesse generale viene richiesta la sua pubblicazione sull’Intranet aziendale.
Alla fine, il know-how raccolto viene riportato in una relazione interna mensile, la quale sarà anche essa utilizzata per redigere il manuale di aggiornamento semestrale.
In concreto, quindi, per la formazione dei neo-assunti e l’aggiornamento dei dipendenti, l’UNITEC dispone di diversi strumenti: la letteratura interna e quella specializzata (come, ad esempio, le varie tesi pubblicate sul sito dell’UNITEC, che concernono l’azienda stessa); degli audit² esterni semestrali; la partecipazione a corsi tenuti da terzi (anche serali) per l’apprendimento e la specializzazione delle abilità tecniche richieste dall’UNITEC.
Inoltre, sono previsti dei corsi ad hoc per i venditori dell’azienda.
Affrontiamo ora la questione dei tipi di contratto, cui sono soggetti i dipendenti dell’UNITEC. Essi fanno riferimento ai contratti di categoria vigenti nei vari Paesi dove l’UNITEC è presente.
Attualmente ben l’89% di loro sono occupati a tempo pieno, come raffigurato nella tabella 4.25. Sostanzialmente il personale impiegato a tempo parziale è quello adibito ai servizi saltuari e di manutenzione delle strutture, ma anche ad alcuni servizi che l’UNITEC ha dato in outsourcing.

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Fonte: nostra elaborazione dati UNITEC

Nella tabella successiva, la 4.26, invece, vediamo l’andamento degli occupati delle tre aziende UNITEC sempre a tempo pieno e a tempo parziale, ma questa volta nel tempo, ovvero dalla costituzione dell’azienda (come già ricordato, avvenuta nel 1990) fino ad oggi. Possiamo rilevare che fino al 1996, tutti gli occupati appartenevano all’UNITEC tedesca.
Dal 1997, emerge l’andamento della nascente azienda italiana, che dal 1999 si fonde con quello dell’UNITEC latinoamericana.

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Fonte: nostra elaborazione dati UNITEC

Riguardo ai contratti a tempo indeterminato ed a quelli a tempo determinato, possiamo dire che dal 1998 l’UNITEC ha iniziato ad utilizzare gradualmente ed in ridotta misura i secondi.
Infatti, questi ultimi permettono di ricontrollare a scadenze fisse (in genere, di tre mesi o di sei) la posizione del collaboratore. I contratti a tempo determinato, inoltre, rappresentano un importante incentivo a crescere a livello professionale e cognitivo, per quanti vi sono soggetti.
Nella tabella 4.27 vediamo la situazione attuale, mentre nella 4.28 è illustrato l’andamento che il fenomeno ha assunto dalla costituzione dell’azienda fino ad oggi, rispetto al trend degli occupati totali dell’UNITEC.

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Fonte: nostra elaborazione dati UNITEC

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Fonte: nostra elaborazione dati UNITEC

Nota 1: In questo paragrafo, il 4.3, studieremo l’occupazione dell’UNITEC nel suo complesso. Nel sottoparagrafo 4.3.1, invece, analizzeremo più nel dettaglio le caratteristiche ed il tipo di posti di lavoro delle donne che sono impiegate nell’azienda oggetto di indagine.
Nota 2: Per audit si intende un’operazione di controllo dei compiti assegnati, in altre parole esso consiste nella verifica dello stato di avanzamento delle attività programmate, anche con riferimento allo stato di avanzamento delle competenze del personale ed alle necessità formative. Questo controllo viene svolto sia sui collaboratori, sia sui vari reparti ed anche sull’azienda nel suo complesso.

4.3.1 L’UNITEC e l’occupazione femminile

Abbiamo già detto, presentando l’azienda, che essa occupa 180 lavoratori. Il 45% di questi (pari a 81 persone) è costituito da donne. Nell’indagine abbiamo deciso di disaggregare anche questo dato e di andare a studiare in che modo la componente femminile dell’UNITEC risulta occupata.
Le diplomate sono 77, mentre le 4 restanti risultano laureate. Possiamo vedere a riguardo la tabella 4.29.

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Fonte: nostra elaborazione dati UNITEC

Di fatto, il rapporto tra laureate e diplomate rispecchia in pieno la ripartizione dei titoli di studio valida per la generalità degli occupati (che corrispondeva a 5/95, pari ad un diciannovesimo).
Le diplomate sono 20 in ragioneria (27% del totale), 20 al liceo scientifico tecnologico (27%), 14 all’istituto tecnico commerciale (18%) e le altre 23 provengono dall’istituto tecnico industriale (28%).
Più precisamente, di queste ultime 10 giungono dall’indirizzo informatico (12%), 8 da elettronica e telecomunicazioni (10%) e 5 da chimica industriale (6%), come rappresentato nelle tabelle 4.30 e 4.31.

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Fonte: nostra elaborazione dati UNITEC

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Fonte: nostra elaborazione dati UNITEC

Dalle tabelle 4.32 e 4.33 emerge che le laureate sono 2 in lingue (50% del totale), 1 in economia ed 1 in informatica (rispettivamente, i restanti 25% del totale).

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Fonte: nostra elaborazione dati UNITEC

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Fonte: nostra elaborazione dati UNITEC

Analizzando tra le tabelle presentate quelle che illustrano i titoli di studio delle donne impiegate all’UNITEC, si capisce la ragione per cui siano occupate prevalentemente nello svolgimento di mansioni di tipo amministrativo, se si escludono (come già visto) quelle a part-time: esse non possiedono sostanzialmente, tranne alcune eccezioni, titoli di tipo tecnico.
Viceversa, gli uomini sono impiegati prevalentemente proprio per lo svolgimento di questo ultimo tipo di attività.
Per quel che concerne i contratti di lavoro atipico, tutti i 20 occupati a tempo parziale dell’azienda sono di sesso femminile.
Le altre 61 donne hanno un contratto a tempo pieno, come presentato nella tabella 4.34.

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Fonte: nostra elaborazione dati UNITEC

Le occupate a tempo determinato sono attualmente 6 (e corrispondono al 7% delle donne occupate all’UNITEC), mentre le altre 75 (93%) hanno un contratto a tempo indeterminato, come evidenziato nella tabella 4.35.

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Fonte: nostra elaborazione dati UNITEC

Sostanzialmente, la percentuale di presenze femminili nell’UNITEC è rimasta pressoché invariata nel tempo. Pertanto, descrivere il suo andamento risulterebbe ridondante: esso può essere facilmente intuito dalle tabelle riferite in generale a tutta l’azienda, tenendo presente che la componente femminile si è sempre rivelata prossima al 45%.
Infine, per concludere questo capitolo, proponiamo qui di seguito una tabella riassuntiva, la 4.36, che sintetizza la presente situazione occupazionale dell’UNITEC.

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Fonte: nostra elaborazione dati UNITEC

5°: Considerazioni conclusive: dalle teorie economiche alle politiche del lavoro

5.0. Introduzione

In questo ultimo capitolo si intende concludere l’analisi ricollegando lo studio di caso alla problematica più generale degli effetti occupazionali dell’ICT. Scopo delle presenti conclusioni è di trarre dai risultati della nostra indagine alcune riflessioni, che superino la pura contrapposizione accademica tra teorie ottimiste e pessimiste circa il rapporto intercorrente tra progresso tecnico ed occupazione.
Inoltre, tali considerazioni mirano ad individuare la rete delle interconnessioni causali attraverso cui le nuove tecnologie agiscono e producono effetti sui livelli e sulla struttura dell’occupazione.
Saranno considerate, infine, le posizioni prese dalle autorità governative nei confronti di tale problema e le linee di intervento previste a riguardo.

5.1. Dalla teoria alla pratica, dal micro al macro e viceversa

Come sostenuto da Manelli, Pace e Cecchini (2001) si può veramente affermare che “la costante della Nuova Economia è il cambiamento continuo” (pag. 83).
Nel secondo capitolo, abbiamo visto che le nuove tecnologie sono l’essenza stessa della new economy, esse svolgono un ruolo essenziale: offrono a tutti una scelta più ampia, un accesso più semplice a beni e servizi con una qualità migliore, alimentano continuamente la loro rilevanza per il presente e per gli sviluppi futuri, accrescendo la necessità di innovazione del sistema.
Esse obbligano molti lavoratori a mutare o rivedere le proprie forme di impiego, così che il termine “flessibilità” (spesso puramente inteso nel dibattito teorico-politico col significato riduttivo di “compressione salariale e/o crescita del turn over”) abbia invece la valenza positiva di “rapido adattamento qualitativo” alle nuove modalità di produrre.
Di fatto, per quello che è stato possibile costatare a livello empirico, non si è potuto affermare che l’introduzione di nuove tecnologie a livello aziendale abbia diminuito il volume dell’occupazione; in particolare, nel caso pratico, la crescita delle attività legate ad esse ha comportato un incremento degli occupati, seppur modificando le caratteristiche di impiego della forza lavoro.
Per cominciare a trarre le prime conclusioni sull’impatto occupazionale delle nuove tecnologie ICT, è indispensabile recuperare alcuni elementi teorici, affrontati nel capitolo iniziale, e riallacciarci alle diverse spiegazioni del rapporto tra progresso tecnico ed occupazione (strumento chiave dello sviluppo dinamico della ricchezza individuale e collettiva), proposte dalle varie scuole di pensiero economico.
Da una parte, come si ricorderà, vi è il modello classico autoregolantesi, equilibratore del mercato, fondato sulla legge di Say.
Abbiamo visto che per gli economisti che vi fanno riferimento, le forze automatiche del mercato riescono a ristabilire l’equilibrio anche in presenza di progresso tecnico. Questo viene da loro considerato un fattore esogeno e neutrale.
Pertanto, la disoccupazione non è dovuta alla tecnologia, ma ad imperfezioni occasionali nei meccanismi di informazione tra domanda ed offerta. Vale la teoria della compensazione: per questi autori il sistema tenderà sempre a corrispondere ad un tasso naturale di disoccupazione, il quale sarà legato strettamente alle tecnologie disponibili.
All’altro estremo, si trova il modello marxiano, in cui lo studio del legame tra progresso tecnico ed accumulazione di capitale (attraverso cui l’innovazione entra nel sistema) è necessario a comprendere lo sviluppo degli effetti sul mercato del lavoro e l’incremento del livello di meccanizzazione del processo produttivo.
L’impiego delle macchine costituisce un importante strumento per resistere alle pressioni salariali della forza lavoro.
In una posizione intermedia, si trovano il modello schumpeteriano e quello post-keynesiano. Nel primo, si è visto che le innovazioni sono collegate ad una rottura nel breve periodo degli equilibri produttivi precedenti.
Come giustamente sottolinea Reich “un’economia sana non è mai in perfetto equilibrio” (Reich, 2001, pag. 53), poiché l’innesco di un processo di distruzione creativa costituisce un elemento fondamentale per l’evoluzione dei mercati.
L’innovazione porta all’introduzione di nuovi prodotti, processi, mercati e modalità produttive ed organizzative.
Il modello post-keynesiano, invece, afferma che, comunque, deve essere riconosciuta la presenza di “scricchiolii e cigolii”.
Rilevando l’importanza del rapporto tra tecnologia ed accumulazione del capitale, i sostenitori di tale modello teorico non ritengono più che il progresso tecnico sia neutrale rispetto all’occupazione.
Questo avviene solo nel caso in cui si verifichi l’uguaglianza dei tassi di crescita tra capitale e lavoro.
In sostanza, il sistema non è capace di garantire investimenti tali da assorbire tutta la manodopera disponibile.
L’innovazione tecnica implica ripercussioni sul piano economico-sociale, a causa degli effetti che essa induce a livello istituzionale e di organizzazione delle strutture sociali.
Il modello dinamico disaggregato multisettoriale di Pasinetti considera le variazioni della produttività nei vari rami dell’economia e definisce il concetto di integrazione verticale del processo produttivo.
Da questo si deduce che le innovazioni tecnologiche comportino forti mutamenti nella distribuzione intersettoriale (oltre che intrasettoriale) dell’economia, perciò risulterebbe fondamentale l’esistenza di una forte mobilit๠dei lavoratori stessi tra i diversi rami dell’economia.
Sylos Labini si concentra sulla natura endogena/esogena delle innovazioni rispetto al sistema economico e sui fattori che favoriscono l’introduzione di macchinari nella produzione.
Perez e Boyer stimano che gli aggiustamenti si realizzino solo tramite cambiamenti sociali e politici, adeguati alle peculiarità delle nuove tecnologie.
Vediamo che le variabili coinvolte dalla visione aggregata e da quella disaggregata sono in generale le seguenti: la produttività, la produzione, i prezzi dei fattori, la composizione settoriale della produzione, la domanda ed in una visione dinamica il tempo. Ovviamente sappiamo che l’ascesa delle nuove tecnologie, il declino o lo sviluppo di interi settori, i nuovi investimenti infrastrutturali, gli spostamenti della dislocazione internazionale delle industrie e della leadership tecnologica, gli interventi dello Stato a favore di questo o quel settore, una variazione delle norme mutano il quadro di riferimento in cui il rapporto tecnologie/lavoro si evolve.
Ma come è vero che tale legame varia nel tempo è altresì vero che muta anche il contesto di riferimento.
Ognuno dei modelli sopraesposti non fa altro che tentare di spiegare il legame esistente tra progresso tecnico e posti di lavoro, considerando il mutamento di alcune variabili e la costanza di altre e provando a semplificare più o meno la realtà dei fatti. Questo inevitabilmente accresce le difficoltà di chi tenta di definire l’andamento del fenomeno oggetto della nostra indagine, nel lungo periodo.
Oggettivamente, vi è la necessità di fare riferimento ad una visione disaggregata dell’analisi, dato che quella aggregata è eccessivamente semplicistica e generica.
Potremmo, dunque, partire da un approccio di tipo post-keynesiano (ove possa albergare un’ipotesi di “disoccupazione involontaria” estranea alla scuola neoclassica ortodossa), ma qualificandolo con aspetti “microfondati” (ove abbia spazio sia l’analisi del comportamento individuale, sia -soprattutto- l’impostazione dinamica di lungo periodo).
Oggi sappiamo che il progresso tecnico porta grandi cambiamenti nel mondo del lavoro.
In generale, la produzione è affidata a macchinari, che tolgono certamente lavoro manuale, ma allo stesso tempo riducono i prezzi e, di conseguenza, incrementano il potere di acquisto.
Se i consumatori comprano di più, le imprese producono maggiori quantità di beni e servizi ed avranno bisogno di nuovi occupati. Sappiamo che i bisogni umani sono inesauribili: se diminuisce l’occupazione nel settore primario e nel secondario, aumenta certamente in quello terziario per soddisfare molti bisogni che vanno ben oltre le necessità essenziali (intrattenimento, stimolo intellettuale, comunicazione, benessere famigliare, sicurezza finanziaria, salute).
Insomma, possiamo dire che la disoccupazione tecnologica potrebbe curarsi da sola, o quasi, sotto la condizione che l’esistenza di personale qualificato serva non solo a combinare in modo adeguato e più produttivo il capitale fisico e quello umano, ma anche e soprattutto a “gestire” il prevedibile aumento della produttività media dei fattori, a favore di un incremento occupazionale.
E’ noto, infatti, che una crescita della produttività indotta da progresso tecnico ha, come prima conseguenza visualizzabile in un grafico, lo spostamento in alto della funzione di produzione (da Y a Y’) contrassegnando un aumento del prodotto per unità di fattore impiegato (la curva di domanda si sposta a destra).

grafico61

Fonte: Capparucci (1995)

A parità di altre condizioni, tale incremento di output per unità di fattore potrebbe comportare un aumento o del livello salariale, o dei profitti (se il potere sindacale fosse debole), o dell’occupazione (da A verso C, anziché B).
Nell’eventualità in cui, a seguito di progresso tecnico, ci “accontentassimo” dello stesso livello di prodotto antecedente all’innovazione, potremmo avere una contrazione dell’occupazione (dal punto O a H).
Se scegliessimo, invece, di destinare gli incrementi di produttività a nuova e maggiore occupazione, è importante che (in una logica puramente keynesiana) alla maggior offerta di prodotto (conseguente la maggior occupazione N’) corrisponda una parallela maggior quantità di reddito domandato.
Fin qui l’analisi rimane ancora a livello aggregato. Il problema, in realtà, sta proprio nel fatto che, se da un lato, l’introduzione, l’adattamento e la diffusione del progresso tecnico esigono personale adeguatamente qualificato, dall’altro, l’utilizzo di quest’ultimo potrebbe comportare lo “spiazzamento” di lavoratori meno qualificati (ad esempio, il lavoro di tre operai potrebbe essere svolto da un solo operatore informatico e da un computer).
Perché non ci sia disoccupazione tecnologica a livello aggregato è indispensabile che (microeconomicamente) si provveda in modo tempestivo a riqualificare e/o a adibire ad altre mansioni il personale dai profili professionali obsoleti.
In questo contesto, dunque, la formazione assume un ruolo cruciale sia dal punto di vista dell’analisi, sia da quello degli intenti.

Nota 1:Ricordiamo che per mobilità si intende la capacità e la disponibilità a spostarsi per trovare un posto di lavoro idoneo alle proprie competenze.

5.2. La tecnologia e la nuova era del capitale umano

Lo studio è diventato l’investimento per eccellenza sul capitale uomo. Esso costituisce la base stessa del progresso e del benessere sociale. Partiamo dal fatto che il lavoro per produrre ha bisogno del capitale e delle materie prime.
Il progresso tecnico modifica il modo di combinarsi del lavoro con gli altri fattori ed anche i tipi di lavoro richiesti.
Da questo, ossia dai modi di produzione¹ , dipende anche la disuguaglianza dei salari da un Paese all’altro.
Gestioni avanzate e tecnologie di punta permettono una più alta produttività con un conseguente aumento della domanda di lavoro qualificato e meglio remunerato. Pertanto, i Paesi in via di sviluppo, dotati di tecniche produttive elementari, hanno salari più bassi ed una richiesta minore di personale qualificato.
Perché un Paese abbia una tecnologia superiore che permetta un elevato punto di equilibrio tra domanda ed offerta di lavoro è necessaria l’esistenza di una buona amministrazione, quella di un mercato con regole semplici e trasparenti e quella di lavoratori, tanto più qualificati se istruiti. La formazione diventa così la chiave di volta dello sviluppo economico: chi non la possiede ne rimane pesantemente penalizzato.
Il Paese che investe in istruzione fornisce ai suoi cittadini le condizioni per accedere ad un mercato del lavoro qualificato ed, inoltre, accentua il divario dei salari fra chi ha le competenze necessarie e chi è rimasto indietro nella scala dell’istruzione e della formazione.
Il centro dell’organizzazione del lavoro è oggigiorno l’informazione, trasmessa ed elaborata dalle nuove tecnologie ICT.
Il rapporto uomo/macchina si è modificato poiché si è aggiunta la capacità dell’uomo di comunicare con l’operatore informatico.
Anche per questa ragione, una formazione continua, che non si fermi soltanto alla scuola dell’obbligo, acquista col passare del tempo una rilevanza sempre maggiore: essa deve via via creare una popolazione di lavoratori informati e qualificati.
In un mondo che si è globalizzato, la necessità di conoscenze e competenze è comune a tutti e crea il presupposto per la mobilità dei lavoratori. Essa non fa altro che attenuare i differenziali salariali tra le aree geografiche. L’obiettivo di diminuirli, a parità di mansioni, si può realizzare passando a modi di produzione più complessi. I bassi salari per impieghi non qualificati, restano tali se il lavoratore non incrementa le sue competenze e non riesce a porsi sul mercato del lavoro in una posizione migliore rispetto alla precedente. Tuttavia, il passaggio da una categoria all’altra deve essere facilitato dalle capacità del singolo e dalla formazione continua organizzata in parte a livello governativo ed in parte a livello privato.
Inoltre, l’investimento effettuato in passato in capitale umano orienta sia il lavoratore, sia il sistema economico, verso specifiche frontiere produttive. Bisogna, infatti, tenere sempre presente il costo di energie (tempo e costi) necessarie per specializzarsi in una nuova professione e/o per acquisire altre abilità.
La disuguaglianza salariale è principalmente frutto delle capacità dei singoli e delle istituzioni di provvedersi di conoscenza, formazione, capitale fisico e tecniche produttive.
In particolare, è la tecnologia la vera responsabile di questi divari, sia all’interno dei singoli Paesi, sia nelle relazioni tra i vari Stati.
Tuttavia, la storia insegna che risulterebbe errato ostacolare le importazioni dei prodotti dei Paesi in via di sviluppo, dove costano meno, per diminuire l’accentuarsi delle disuguaglianze. Infatti, i proventi di tali importazioni vengono destinati dai Paesi emergenti all’importazione di beni sofisticati, prodotti nei Paese sviluppati, a dimostrazione che il commercio internazionale è un gioco a somma positiva.
Con l’unione monetaria ed il mercato unico, l’Europa è diventata luogo di scambio di beni, di consumi e di lavoro. Nonostante gli elevati tassi di disoccupazione di alcuni Stati membri dell’U.E., l’avvento dell’euro incoraggia la mobilità del lavoro (come proponeva Pasinetti nel suo modello dinamico multisettoriale) e, grazie al riconoscimento reciproco di titoli di studio e di attestati professionali, allarga ulteriormente lo spazio geografico di mestieri e professioni. I cittadini europei possono cercare lavoro anche via Internet, paragonando salari in un’unica moneta. Non va tralasciato che nella prospettiva del mercato unico e dell’integrazione economica è indispensabile possedere capacità di comunicazione: la conoscenza delle lingue appare come elemento fondamentale per la collocazione nel mercato del lavoro. L’inglese risulta, di gran lunga, la lingua più richiesta, ben nel 90% delle domande di lavoro (Isfol, 2001).
Il commercio elettronico ed Internet modificano il mercato del lavoro e provocano un cambiamento incisivo anche nella sua organizzazione, aprendo nuovi canali di diffusione delle conoscenze e di interattività nell’ambito delle varie attività. Attraverso l’utilizzo della Rete e di tecnologie di workgroup è possibile produrre il telelavoro, il quale consente, oltre la riduzione dei costi di struttura, l’acquisizione di risorse e professionalità, oggi vera forza strategica per i Paesi industrializzati. L’azienda stessa si riorganizza con più flessibilità ed adattabilità, mentre vengono ridefinite le funzioni e le capacità dei lavoratori, tramite la formazione e l’aggiornamento.
Le PMI dovrebbero essere in grado di reperire a costi inferiori le professionalità che il loro sviluppo richiede e nello stesso tempo possono permettersi di mantenere i vantaggi che le piccole dimensioni offrono.
La differenza tra l’occupazione di oggi e quella di domani è data dalla spinta crescente che l’introduzione della tecnologia dà all’incremento della produttività e della qualità ed all’abbassamento dei tempi e dei costi (e, di conseguenza, dei prezzi dei beni finali, per poter rimanere competitivi).
Il progresso tecnico offre beni e servizi migliori, ma per non tagliare le imprese fuori del mercato, le obbliga a produrre sempre meglio dei propri concorrenti. Tuttavia, questo non basta: oltre ad incrementare la qualità, ridurre tempi e costi, è necessario migliorare di continuo anche l’organizzazione del lavoro, rendendola capace di generare beni e servizi prima degli altri: da qui nasce anche la necessità della ricerca per lo sviluppo. Il problema che ogni azienda si pone è di attrarre traffico e visibilità (col passaparola, direct marketing, tele marketing, diffusione tramite marchi conosciuti). A tal fine, l’obiettivo delle imprese deve essere soltanto quello di mantenere la reputazione di offrire i migliori affari: nella new economy, infatti, il valore economico delle aziende dipende dalla solidità del rapporto di fiducia che esse sono riuscite a creare coi propri clienti.
Dato che la tecnologia è il futuro, in avvenire lo spirito di innovazione si estenderà alle economie di tutto il mondo: l’ICT, amplificando le idee creative in un particolare campo o mercato, ne accrescerà il valore e le farà diffondere in tempo reale.
Ormai sappiamo che gli sforzi iniziali imposti dall’informatizzazione dei processi gestionali, col cambiamento delle tecniche produttive da convenzionali ad informatiche, sono decisamente alti (come già visto nella tabella 3.15).
Tuttavia, la tecnologia apporta all’impresa valore aggiunto ed ha importanti valenze strategiche per l’esistenza aziendale.
Ciò significa che il progresso tecnico offre la possibilità di notevoli margini di guadagno e di ragguardevoli vantaggi per l’impresa; esso, inoltre, a determinate condizioni (prima tra tutte, la riqualificazione continua del personale), potrebbe preservare l’occupazione, impedendo che con la chiusura degli impianti obsoleti, tanti occupati si trovino senza un lavoro.
L’ICT trasforma non solo le attività dell’azienda, ma l’impresa stessa, consentendo l’informatizzazione dei documenti e l’automazione dei processi. E’ così che gli investimenti nelle nuove tecnologie aiutano ad acquisire ulteriore capitale umano e mutano il lavoro da manuale ad automatico. Inoltre, essendo il controllo di tali attività automatiche di tipo concettuale, è necessario un cambiamento delle qualifiche richieste con nuova formazione o corsi di aggiornamento da parte degli impiegati dell’azienda: tra l’altro, questo contribuisce al miglioramento intellettuale degli occupati. E’ necessario che il personale si specializzi continuamente nella progettazione, programmazione e manutenzione dei nuovi strumenti informatici.
Infine, consentendo una maggiore creatività e possibilità di spaziare oltre la mera occupazione manuale, si è verificato che le nuove tecnologie permettono una maggiore soddisfazione individuale dei lavoratori.
Innovando, come si è potuto costatare anche nello studio di caso da noi proposto, si è creato spazio per ulteriore valore aggiunto e l’occupazione è via via aumentata; allo stesso modo, abbiamo riscontrato che nelle imprese-clienti i posti di lavoro non sono diminuiti, ma la loro qualità è migliorata.
Tale avvenimento si è realizzato poiché le nuove tecnologie hanno consentito un aumento, di fatto, del reddito. In genere, l’azienda che assume nuovi lavoratori è di piccole o medie dimensioni ed appartiene al settore meccanico o a quello dei servizi alle imprese². Possiede alti livelli di redditività ed un’elevata propensione all’innovazione ed all’esportazione. Inoltre, essa ha una certa intensità dell’utilizzo del lavoro (misurato dalle ore effettivamente svolte per dipendente) e le sue assunzioni risultano legate alla migliore destinazione della manodopera presente.
Quello della propensione all’innovazione è un elemento determinante, poiché collega il mercato del lavoro al modo di produrre ed alla domanda di un tipo di occupazione sempre più qualificata.
E’ da rilevare che nel nostro Paese le imprese presentano una capacità di innovare non collegata a laboratori di ricerca formale: esse, infatti, introducono nuovi prodotti o modificano quelli esistenti sulla base di esperienze ed apprendimento di vario genere con lo sguardo continuamente rivolto alla domanda ed all’evoluzione del mercato.
In conclusione, alla luce di quanto finora esplicato, possiamo sostenere che la tecnologia dà all’impresa la possibilità di progredire, ma allo stesso tempo la impegna a farlo, altrimenti si troverebbe tagliata fuori dal mercato.

Nota 1: Con l’espressione modi di produzione, si intende il complesso della tecnologia e dell’organizzazione del lavoro che definisce un assetto produttivo. I modi di produzione cambiano continuamente, in seguito all’introduzione del progresso tecnico ed all’innovazione di processo.
Nota 2: In particolar modo, la crescita si è rilevata ancor più elevata per quelle imprese che forniscono servizi specializzati, che richiedono una specifica conoscenza tecnologica. Ancora una volta la crescita occupazionale della forza lavoro premia l’alta qualificazione professionale.

5.3. Nuove tecnologie, lavoro subordinato ed atipico

Come abbiamo potuto costatare nello studio di caso affrontato nel quarto capitolo, gli aspetti legati alla situazione occupazionale di una società non sono semplici da definire, ma necessitano di un’analisi altamente disaggregata. Nel caso pratico, a livello quantitativo, si è studiato l’andamento del numero totale dei lavoratori dell’azienda presa in esame.
Si è potuto verificare che nel tempo gli occupati sono sostanzialmente aumentati, anche se in maniera non costante.
Inoltre, anche ove questi siano rimasti per un certo arco di anni gli stessi, ne è mutata la composizione.
Abbiamo visto nel capitolo precedente, come l’UNITEC sia sorta con una ventina di dipendenti e nel giro di appena quattro anni sia riuscita a quintuplicare tale numero.
In seguito, si è verificato un triennio di assestamento, attraversato dal cambio dei contratti da tempo parziale a tempo pieno. Nel 1997 l’occupazione ha ricominciato a salire e nello stesso anno è stata introdotta la legge 196 sul lavoro temporaneo.
Nel 1998 i contratti a tempo indeterminato non sono stati più la regola e da allora quelli a tempo determinato hanno cominciato ad essere utilizzati, anche se molto flebilmente. Ad oggi, su centottanta dipendenti dell’UNITEC solo dodici (pari al 6,5%) hanno un contratto a tempo determinato.
Possiamo affermare che il lavoro sta cambiando nella sua struttura. In Italia è in atto un processo che vede lavoratori ed imprese mirare a modulare meglio l’orario di lavoro. A livello generale, questo avviene poiché le imprese devono tagliare continuamente le spese, oltre che non acquistando ogni cosa che possano affittare e cercando fornitori con costi minori, anche livellando le gerarchie in reti contrattuali flessibili¹.
Flessibilità: abbiamo già visto quanti e quali significati possano esserle attribuiti, ma in ogni caso essa si rivela una variabile di valore fondamentale. Anche se non si può affermare in modo inconfutabile che all’origine della mancanza attuale dei posti di lavoro vi siano forme di garantismo, rigidità ed alto costo del lavoro, è innegabile che una “giusta dose di flessibilità” possa aiutare aziende e lavoratori a rimanere sul mercato.
Come si ricorderà nel paragrafo 2.4, si è mostrato che la creazione di nuova occupazione appare sempre più legata a forme contrattuali meno rigide di impiego, come i contratti di lavoro atipico (part-time, tempo determinato, lavoro interinale, stagionale, CFL, apprendistato e job sharing), i quali si diffondono sempre più in Italia.
In particolare, il contratto a tempo determinato permette di ricontrollare a scadenze fisse (tre o sei mesi) la posizione del collaboratore e, secondo le aziende, rappresenta un importante incentivo a crescere a livello professionale e cognitivo, per quanti vi sono soggetti. Tale tipo di contratto comporta innumerevoli vantaggi per l’impresa, un po’ meno per il lavoratore, anche se c’è da rilevare che in tale maniera egli ha la possibilità di svolgere un impiego per alcuni mesi, piuttosto che rimanere senza un’occupazione.
D’altra parte, non va taciuto il fatto che, in generale, tali tipi di contratti offrono alle imprese la possibilità di alleggerire il costo del lavoratore nel lungo periodo, sia perché possono meglio adattare il flusso di occupati alle variazioni del ciclo economico, sia perché possono ridurre la permanenza di un lavoratore nell’azienda e con essa i suoi costi fissi (come il T.F.R.), quando il suo profilo professionale risultasse obsoleto.
Considerando più attentamente la legislazione vigente non si può negare che sussistono al momento notevoli incentivi per le aziende a ricorrere al lavoro temporaneo, piuttosto che alle tradizionali forme di impiego.
Tuttavia, bisogna riconoscere che con l’introduzione nell’ordinamento vigente della figura del lavoro temporaneo, la L. 196/1997 è riuscita ad aprire una breccia nel rigoroso regime garantistico del lavoro subordinato, istituzionalizzato sin dall’inizio degli anni ’60. Nell’attuale situazione economico-sociale, il problema principale è di certo quello occupazionale e per risolverlo occorre sicuramente proporre soluzioni innovative.
La mancanza di un’occupazione rappresenta la negazione del valore dell’uomo: pertanto, deve ritenersi preferibile un lavoro mobile e/o provvisorio ad una disoccupazione lunga e priva di prospettive.
Siamo però altrettanto convinti che sono necessarie alcune modifiche che consentano al lavoro temporaneo di essere tale anche in relazione al ciclo di vita lavorativa dell’individuo: una sorta di incentivo che faciliti l’ingresso nella struttura occupazionale, dove però un “giusto grado di stabilità” sia anche il presupposto per poter programmare (per il lavoratore, come per l’impresa) investimenti in formazione e processi di learning by doing, dove la permanenza nell’azienda significhi anche accrescimento di capitale umano e profittabilità per gli investimenti effettuati (anche in termini di sicurezza sociale e previdenziale).
Oggi il mercato del lavoro europeo è soggetto alla concorrenza dei Paesi da poco industrializzati, al cui interno nascono nuove opportunità in settori di recente creazione (in particolare, elettronica e telematica).
Per la nostra occupazione, le prospettive dipendono dalle riforme intese a ridare mobilità e flessibilità ad un mercato del lavoro che deve stare al passo coi tempi.
Nel caso pratico, abbiamo rilevato che le conoscenze tecniche richieste ai dipendenti dell’azienda studiata sono via via aumentate nel tempo: è quindi l’elevata qualificazione ad aver consentito l’impiego di nuovo personale.
A riguardo, è evidente come l’istruzione svolga un ruolo centrale; inoltre, il reddito dei più istruiti continua a crescere rispetto a chi ha smesso di studiare.
Come si sostiene in una recente analisi (Seravalli, 2000), se si ipotizza che al processo di formazione sia abbinata la deregolamentazione dei regimi di impiego (con la possibilità del licenziamento senza giusta causa, in qualsiasi caso), l’azienda non risulterebbe durevolmente legata ai propri dipendenti, formati/addestrati a sue spese, ed essi non sarebbero incentivati a rimanere qualora altre imprese (che non hanno sostenuto i costi della loro formazione) gli offrissero condizioni salariali migliori. In tal caso, abbandonando il proprio impiego, i lavoratori esproprierebbero l’impresa del capitale di competenze su di loro investito. E’ probabile inoltre che, per garantirsi un livello medio di reddito nel lungo periodo, il salario da loro richiesto sarebbe maggiore, rispetto a quello del lavoro a tempo indeterminato. Di fronte a questa situazione, le imprese sarebbero obbligate ad incrementare i propri investimenti nella formazione delle competenze dei dipendenti, così da permettere un apprendimento rapido e ricco di contenuti.
Si creerebbe ulteriore concorrenza tra le aziende per “accaparrarsi” i lavoratori più bravi, per i quali non hanno sostenuto alcun costo di addestramento e che, pertanto, possono permettersi di pagare di più.
Se il modello si realizzasse proprio in questi termini, in modo virtuoso, vi sarebbero innumerevoli vantaggi: aumento della produttività, maggiore istruzione e formazione, aumento del benessere.
Tuttavia, se l’aumento della deregolamentazione non portasse effetti positivi (meccanismo vizioso), si ridurrebbe lo spazio per uno sviluppo tecnico graduale e si giungerebbe o ad un progresso rapido e convulso oppure al declino.
Il funzionamento virtuoso o vizioso del meccanismo dipende fondamentalmente dal legame tra la crescita della produttività e quella del prodotto.
In uno scenario di deregolamentazione del mercato del lavoro, sebbene il rischio dell’espropriazione dei frutti degli investimenti in capitale umano sia cresciuto, se la domanda si sviluppasse in modo rilevante e continuo, le imprese avrebbero i mezzi per continuare ad investire in innovazione e formazione.
Nel caso in cui, invece, la domanda crescesse poco e discontinuamente, le imprese avrebbero aspettative pessimiste e scarsi mezzi e pertanto deciderebbero di non investire e di sottrarre lavoratori addestrati ad altre aziende. Il risultato sarebbe che nessuna di esse investirebbe più.
D’altra parte, è altresì vero che solo se la domanda di lavoro crescesse molto e continuamente, le famiglie investirebbero ancora nell’istruzione dei figli (dato che il lavoro non mancherebbe ed il reddito pro-capite si accrescerebbe). In conclusione, sembra preferibile adottare rispetto alle due alternative estreme, pieno successo o declino, forme flessibili di impiego soltanto nella fase iniziale di ingresso al lavoro, senza rinunciare alla centralità del posto fisso nello stock dell’occupazione.

Nota 1: A questo proposito, si ricorderà come nel secondo capitolo, al paragrafo 2.2, si sia affrontato il tema del down-sizing, intendendo con tale espressione la riduzione del livello delle qualifiche di un’azienda (e, quindi, della presenza di dirigenti intermedi), causata dal maggior decentramento delle modalità di produzione verso aziende minori (outsourcing).

5.4. Le professioni della net-economy

Secondo il Rapporto Isfol 2001, le professioni legate al settore delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione sono in costante, ma contenuto aumento (12.446 pari al 4,9% nel 2000; 9.524 pari al 6% nel 1999; 8.561 pari al 6,6% nel 1998).
Tra le prime trenta figure professionali richieste nel 2000, ne rientrano alcune collocabili nell’ambito della new economy: i programmatori occupano il quinto posto in graduatoria (2,5% del totale delle figure ricercate), gli analisti programmatori sono al sesto (con l’1,9% delle richieste totali), i sistemisti EDP¹ (1,7%) sono al settimo posto, i telefonisti dei call center sono al ventottesimo con lo 0,8% ed, infine, gli engeener sono al ventinovesimo con lo 0,8%.
Dal punto di vista quantitativo, da alcuni anni a questa parte, si nota una crescita delle professioni inerenti all’area della new economy, si pensa dovuti alla crescita del settore delle telecomunicazioni ed alla diffusione di Internet.
Indagando però sugli aspetti di qualificazione richiesta per alcune figure, emerge che i livelli conoscitivi della maggior parte delle figure generiche (attinenti la gestione amministrativa/contabile e l’attività segretariale ed, inoltre, trasversali a tutti i settori) si accrescono con l’introduzione delle nuove tecnologie.
Per quanto attiene alle caratteristiche qualitative, invece, della domanda di lavoro, l’aspirante per ricoprire la posizione offerta in genere dovrebbe avere un titolo di studio corrispondente (o superiore) a quello richiesto, una conoscenza medio/alta delle lingue straniere e nella metà dei casi delle esperienze lavorative precedenti.
Senza dubbio, la conoscenza dei profili professionali ricercati permetterebbe una riduzione del tempo necessario all’incontro della domanda con l’offerta. Comunque, va rilevato che i lavori più richiesti sembrano avere un legame particolare con le nuove tecnologie: infatti, l’andamento delle professioni nuove (ricollegabili a tecnologie recenti) od emergenti (funzionali a nuove esigenze del mercato) si rivela di tipo ondivago.
Il dibattito attuale sulla natura e sulle prospettive della net-economy è molto vivace e complicato da numerosi eventi congiunturali (quali il rallentamento economico americano -dopo anni di continua crescita- e giapponese; i tagli occupazionali; la fine della bolla speculativa negli U.S.A. e la saturazione di alcuni mercati).
In ogni caso, la rilevanza della nuova economia è sempre crescente: gli obiettivi da perseguire attraverso di essa sono, in primo luogo, un livello di disoccupazione frizionale ed, in secondo, la costituzione della maggioranza dei posti disponibili di tipo qualificato.
Il Consiglio straordinario europeo di Lisbona (23 – 24 marzo 2000) ha individuato nell’economia basata sulla conoscenza (Knowledge Based Economy, KBE) la sfida competitiva per favorire la crescita ed arrivare al pieno impiego. Pertanto, l’U.E. si è prefissata di “diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale” (Consiglio Europeo di Lisbona, 2000, pag. 2). A tal fine, si è cercato sempre più di inserire l’economia della Rete nel Vecchio Continente.
Nell’Employment in Europe 2001 della Commissione Europea emerge chiaramente che l’economia mondiale è attualmente sottoposta alla globalizzazione dei processi ed all’introduzione delle nuove tecnologie, due sfide importanti che vanno vinte per poter approfittare a pieno delle possibilità di crescita legate alla KBE e per raggiungere finalmente la piena occupazione. A differenza del “modello di crescita americano” (che da sempre si affida alle forze imprenditoriali ed al mercato e, di certo, non brilla per le garanzie che offre ai lavoratori), l’Unione Europea ha deciso di realizzare tali obiettivi attraverso i tradizionali pilastri del “modello sociale europeo” di solidarietà.
Per quanto riguarda l’Italia, il Governo, presentando il DPEF (Documento di Programmazione Economica e Finanziaria) relativo alla manovra di finanza pubblica per gli anni 2002 – 2006, ha assegnato centralità alla net-economy attraverso la formazione di capitale umano e l’ulteriore sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione².
La complessità della situazione nazionale (data, tra l’altro, dal dualismo territoriale e da una crescita economica debole negli ultimi anni) ci consente di analizzare unicamente l’impatto della net-economy sulla struttura professionale e sulla nascita di nuove professioni, considerando il solo settore dell’informatica e delle telecomunicazioni (dal quale deriva la sigla ICT). Riteniamo, infatti, che proprio questo ultimo sia il più facilmente identificabile con la KBE.

grafico62

Fonte: elaborazioni Isfol su dati Istat.

La tabella 5.2 ci mostra l’andamento degli ingressi e delle uscite dal settore ICT.
Dal 1997 gli ingressi nell’informatica e nelle telecomunicazioni hanno iniziato a crescere in maniera costante fino al 2001, facendo registrare un saldo tra ingressi ed uscite per lo più costante dall’anno 1999.
Dalla tabella successiva, la 5.3, si rileva che gli occupati del settore ICT mostrano la stessa lenta tendenza alla crescita dal 1995 (quando erano 473.000) al 2001 (anno in cui ammontano a 652.000 unità), mentre il settore manifatturiero ad alta intensità di innovazioni tecnologiche (considerato come termine di paragone) registra un incremento della manodopera dal 1997, che nel 2001 ha subito una leggera flessione.
Tuttavia, possiamo dire che nel complesso l’incidenza degli occupati nell’informatica e nelle telecomunicazioni sul totale degli occupati (che ammonta a 21.373.000 nel 2001) è sostanzialmente stabile nel tempo, con una percentuale lievemente superiore al 10%.

grafico63

Fonte: nostra elaborazione dati Istat

Le richieste per occupazioni legate all’ICT sono cresciute molto velocemente negli ultimi cinque anni, tra le prime dieci professioni più richieste nel 1996 figurava solo quella del programmatore, mentre nel 2000 tra esse rientrano anche l’analista programmatore ed il sistemista EDP.
Tutto il settore ICT è cresciuto rapidamente nel tempo, soprattutto negli ultimi tre anni e ha dovuto affrontare molte difficoltà nel reperimento di figure professionali specializzate. Le occupazioni più ricercate sono quelle legate alla programmazione ed al software (programmatore, analista programmatore, progettista software), quelle riguardanti l’area electronic data processing (sistemista EDP) ed Internet (web developer).
Le nuove professioni nate negli ultimi due anni si riferiscono soprattutto all’area Internet (web developer, web master, esperto Internet, web designer, web editor, web content, web marketing), al networking (network system designer, progettista reti, specialista protocolli Rete), all’area sistemi (system administrator, direttori sistemi), ed ad altre aree (assistente EDP, collaboratore EDP, application consultant).
Nel settore ICT è in atto un processo di sostanziale “professionalizzazione”: esso ha determinato una notevole variabilità delle nuove occupazioni rispetto ai salari, ai livelli di qualificazione formale richiesti, alle prevedibili riqualificazioni di lavoratori già occupati in campi diversi oppure anche all’ingresso nella professione di molti neolaureati ed all’ineguatezza da parte delle imprese di elaborare un piano di fabbisogni di manodopera adeguato.

Nota 1: Con la sigla EDP si intende l’Electronic Data Processing (vale a dire, l’elaborazione elettronica dei dati).
Nota 2: Il DPEF riguardante le politiche del Governo per la società dell’informazione si può rintracciare nel sito www.governo.it.

5.5. Politiche per l’occupazione relative all’e-commerce

Il modello che caratterizza la diffusione dell’e-commerce condiziona il benessere collettivo della società civile, così come i tempi ed i modi del cambiamento istituzionale influenzano lo sviluppo dei mercati elettronici e ne influenzano l’organizzazione.
L’adeguamento delle istituzioni è complesso e richiede tempo: esiste la possibilità che nelle varie nazioni coesistano condizioni diverse per ogni ambito istituzionale e commerciale, secondo i prodotti scambiati, le caratteristiche degli attori presenti e particolari norme di comportamento. Le istituzioni ed i governi di tutti i Paesi, specialmente quelli più industrializzati, sono interessati a studiare l’impatto sociale ed economico dell’avvento delle nuove tecnologie e, in particolare, hanno analizzato il tema delle politiche di sostegno per la diffusione dell’e-commerce a livello nazionale ed internazionale.
Sono state proposte misure di vario genere per adattare il contesto istituzionale sia alla formazione di una domanda qualificata (che si avvalga fino in fondo delle possibilità offerte dal mercato elettronico), sia al sostegno ed allo sviluppo dell’offerta.
Nel primo caso, ci si è indirizzati all’alfabetizzazione informatica dei cittadini attraverso la diffusione delle tecnologie ICT nelle scuole, nelle abitazioni private e nei luoghi pubblici.
In tal modo, l’up-grading tecnologico dei cittadini ha delineato nuovi bisogni sociali ed una nuova tipologia dei servizi di comunicazione di base.
Invece, nel secondo caso (quello legato al potenziamento dell’offerta), si è mirato a diffondere le opportunità di business aperte dall’e-commerce nelle PMI e nelle realtà geografiche svantaggiate (come il nostro Meridione) per mezzo di progetti pilota, che vedono coinvolta in primo luogo la Pubblica Amministrazione sia come cliente per il settore business, sia come fornitore di servizi ai cittadini. Ci sono poi le proposte per gli incentivi fiscali alla presenza in Rete, che vanno dalla defiscalizzazione degli investimenti alla diminuzione delle aliquote di imposte sui fatturati on-line: tuttavia, tali misure potrebbero generare asimmetrie tra i diversi Stati e tra il commercio elettronico e quello tradizionale.
Un veloce esame della situazione attuale evidenzia tre aree nelle quali esistono ostacoli e frizioni che, senza un adeguato impegno istituzionale, potrebbero limitare la diffusione del commercio elettronico.
Queste sono le infrastrutture, l’ambito normativo ed il circuito finanziario.
In primo luogo, la complessità dell’adeguamento delle infrastrutture di comunicazione coinvolge gli attori istituzionali e gli organismi di Governo internazionali. L’intervento pubblico deve mirare a semplificare l’introduzione di nuovi prodotti-servizi, sollecitando l’aggiornamento tecnologico e la convergenza verso standard comuni, garantendo l’equità della competizione per quel che riguarda l’offerta e la disponibilità dei servizi di base a prezzi accessibili al pubblico.
Secondo poi, l’area normativa richiede la definizione di un quadro legislativo che consideri la peculiarità degli scambi commerciali in Rete, dai protocolli per la transazione elettronica all’armonizzazione delle normative commerciali internazionali, all’omologazione di procedure che consentano scambi sicuri, salvaguardando la privacy, alla protezione della proprietà intellettuale.
Infine, gli interventi pubblici pro e-commerce di tipo finanziario vanno incentrati sulla promozione di soluzioni che consentano la sicurezza dei pagamenti in Rete e su problemi fiscali legati sia alle differenti normative vigenti nei vari Stati, sia all’ambigua natura di beni o servizi scambiati via Internet.
Ad esempio, nelle transazioni tradizionali un software è venduto su supporto magnetico e, per questo, è considerato un bene fisico, mentre viene considerato un servizio se scambiato direttamente in Rete.
Per quello che riguarda il nostro Paese, è stato formulato dal Governo il Piano di azione per la società dell’informazione sull’e-commerce. Vediamone i punti principali. L’Italia può migliorare la sua posizione tra gli Stati maggiormente industrializzati, con sensibili miglioramenti del sistema economico e sociale, se riuscirà ad intraprendere una decisa azione di innovazione e modernizzazione delle sue imprese e dell’ambito in cui operano.
Lo sforzo tecnologico e finanziario non è sufficiente: sono necessari un impegno culturale ed una nuova organizzazione sociale per sostenere efficacemente la società dell’informazione, gli investimenti e la crescita.
Internet ed il commercio elettronico aprono nuove prospettive sul mercato globale contribuendo alla diffusione dell’ICT nelle fabbriche, negli uffici pubblici e privati, nelle case e nella società accelerando il processo di internazionalizzazione della produzione e del commercio, creando opportunità di sviluppo, di competitività e di lavoro, offrendo nuove possibilità di conoscenza e di scambio.
I risultati più importanti si realizzeranno per le transazioni tra le imprese dell’industria, del commercio, dell’artigianato e dei servizi e saranno soprattutto le PMI a sfruttare i benefici derivanti dall’innovazione, sia nei processi produttivi, sia nelle attività commerciali. Questo tipo di imprese ha più difficoltà a seguire la rapida evoluzione del mercato e molte delle azioni di promozione devono essere rivolte a stimolare la loro capacità competitiva. Le PMI costituiscono l’ossatura del sistema produttivo nazionale per gli aspetti quantitativi (come numero di aziende, fatturato, occupati) e qualitativi (specificità produttive ed organizzative), hanno un buon grado di flessibilità e si adattano facilmente alle richieste del mercato. Inoltre, rappresentano la principale risorsa di crescita verso nuovi settori ed aree geografiche; sono fortemente esposte alla concorrenza internazionale, dato che purtroppo hanno una bassa capacità di innovazione tecnologica ed organizzativa; infine, le PMI incontrano notevoli difficoltà nel reperimento delle risorse umane e finanziarie necessarie.
Innanzitutto, per sviluppare la domanda e l’offerta del mercato digitale, è necessario stimolare la diffusione culturale e l’alfabetizzazione informatica dei cittadini e delle imprese. Per colmare il divario tecnologico, è indispensabile superare il gap culturale che rallenta la penetrazione e l’uso delle tecnologie ICT e formare le figure professionali che oggi mancano sul mercato.
In secondo luogo, il commercio elettronico dovrà essere stimolato nelle sue varie forme e nei differenti stadi di adozione, dalla promozione tramite web di prodotti e servizi alle transazioni on-line (contratti, ordini, fatture, pagamenti, ecc.), dall’integrazione delle procedure elettroniche nei processi interni aziendali (legacy system) all’integrazione coi sistemi esterni all’azienda (riguardanti l’intera catena del valore).
I benefici derivanti dalla diffusione del commercio elettronico sono sicuramente molti, a partire dall’incremento dell’efficienza nei processi e dalle maggiori possibilità di accesso ai mercati internazionali, fino all’ampliamento del grado di trasparenza del mercato derivante da una migliore circolazione delle informazioni ed alla maggiore efficienza della Pubblica Amministrazione (tanto nell’attività di acquisizione di prodotti-servizi, quanto nell’erogazione ai cittadini dei servizi pubblici).
Inoltre, si avrebbero effetti positivi sulla razionalizzazione dei flussi di trasporto e sulla gestione della mobilità nelle grandi città (razionalizzando gli approvvigionamenti) ed un miglioramento della posizione relativa alle PMI ed ai consumatori svantaggiati (come quelli che vivono nelle aree rurali e montane o nel Mezzogiorno, oppure che sono anziani o disabili). Infine, la diffusione dell’e-commerce genererebbe l’espansione nell’impiego di risorse professionali, sia di tipo tecnico, sia connesse alla funzione di produzione dei contenuti, con effetti positivi sull’occupazione e la valorizzazione del patrimonio culturale e dei prodotti tipici nazionali.
Le problematiche derivanti dall’introduzione dell’e-commerce riguardano specifiche classi di attività economica e fasce di popolazione.
A proposito si determineranno crisi nelle attività economiche e nella popolazione con difficoltà materiali e culturali di accesso. Si verificheranno la soppressione e/o la modifica di molte attività di intermediazione (come quelle dei grossisti, degli agenti e degli intermediari), l’entrata in crisi dei lavoratori dipendenti resi superflui dall’e-commerce di tipo labour-saving ed anche la scomparsa di figure professionali, dipendenti ed autonome, a causa del cambiamento negli skill richiesti. Ulteriori rischi sono derivabili dalla mancanza di un comportamento attivo da parte pubblica ed imprenditoriale. Ad esempio, potranno avere effetti negativi sia il mancato aggiornamento tecnologico delle imprese (con l’esclusione dai nuovi grandi mercati accessibili per via elettronica), sia la facilitazione ad accedere ed acquistare da produttori esteri geograficamente distanti dall’Italia, ma più aggressivi nella loro politica di presenza sulla Rete; certamente, la tendenza ad “approvvigionarsi” di contenuti culturali propri di altri Stati e la formazione di nuove categorie di monopolio non avranno un effetto positivo, sia sul piano dell’offerta (come per la capacità di attrarre la domanda attraverso grandi portali) e della domanda (monopsoni o raggruppamenti di acquisto sui mercati elettronici), sia sul piano dei servizi legati all’e-commerce (sistemi di certificazione, di pagamento, per la logistica…) ed alle piattaforme tecnologiche di base.
I risultati del Piano di azione per la società dell’informazione saranno fortemente condizionati dagli interventi orientati a creare le condizioni favorevoli a determinare sviluppo e competitività. L’intervento pubblico è finalizzato a generare esternalità, come la diffusione delle tecnologie ICT, utili per l’aumento della produttività e della domanda e per l’efficienza di tutto il sistema che (grazie a migliori rapporti tra aziende ed istituzioni politiche, economiche e sociali, ad un sistema di servizi reali ed a nuove regole) può creare sviluppo, ricchezza ed occupazione.

I programmi a favore dell’e-commerce riguardano sette aree di intervento.

  • La prima è quella dell’alfabetizzazione e della diffusione della cultura informatica tra gli operatori economici, che si prefigge la promozione di una campagna per la sensibilizzazione e l’orientamento manageriale e di alcuni corsi di alfabetizzazione per 45.000 imprenditori con la realizzazione di 100 centri multimediali e di assistenza tecnica.
  • La seconda area riguarda la formazione professionale specifica, con l’Istituzione presso le Camere di Commercio e le sedi provinciali delle Associazioni degli imprenditori di corsi di lingua inglese, di applicazioni informatiche e di Rete. E’ prevista la certificazione professionale per il corpo docente che sarà formato. Ogni partecipante riceverà una dotazione informatica (PC, stampante, software) di cui entrerà in possesso al superamento dei corsi. Si prevede la formazione di 3.000 docenti specializzati (con le Università).
  • La terza area di intervento prevede incentivi alle PMI per la creazione di portali in relazione a particolari territori e settori merceologici, con la realizzazione di 300 portali verticali con mediamente 200 imprese.
  • La quarta è a favore di uno start up ad elevato contenuto tecnologico: il Governo intende sviluppare relazioni tra l’Industria e l’Università ed, in tal senso, propone una rapida attivazione delle procedure per il finanziamento e l’avvio di iniziative economiche ad alto contenuto tecnologico, assumendo anche partecipazioni nel capitale di rischio di start up hi-tech. Anche gli incentivi previsti dalla legge 488/92 saranno parzialmente orientati verso iniziative ad alto contenuto tecnologico.
  • La quinta area riguarda gli interventi settoriali da realizzarsi in collaborazione con i Ministeri per i beni culturali e per le politiche agricole, per proteggere e valorizzare il patrimonio nazionale e per potenziare il turismo, anche realizzando strumenti di diffusione multimediale. Inoltre, sono previsti interventi sia per favorire i necessari supporti di servizio alle attività di commercio elettronico, come una campagna di diffusione della firma digitale, dell’e-procurement e delle transazioni on-line, sia per la creazione di piattaforme logistiche integrate (centri multimediali, magazzini generali…) assieme agli operatori dei trasporti, anche grazie ai vari incentivi ed alla formazione degli addetti.
  • La sesta area di intervento concerne il sistema delle regole con l’approvazione del disegno di legge sulla registrazione dei nomi a dominio e della successiva normativa di attuazione, per realizzare un sistema integrato circa la proprietà industriale, i brevetti ed i marchi. Riguarda poi sia il recepimento della Direttiva Comunitaria sul commercio elettronico e sull’emanazione delle norme attuative, sia la formulazione di codici di condotta e di autoregolamentazione in materia di e-commerce, sia azioni per favorire la composizione non giurisdizionale delle controversie. Infine, nell’ambito degli indirizzi comunitari e del principio di invarianza fiscale, saranno identificate modalità di tassazione per le transazioni on-line non penalizzanti per le imprese italiane.
  • La settima ed ultima area di intervento verte sulle misure per la qualità e la sicurezza con la riunificazione delle competenze attualmente sparse tra più Comitati Internet nel Board of Advisors. Questo assisterà il Governo sia nella definizione di linee strategiche per lo sviluppo dei servizi in Rete, sia nella rappresentanza dell’Italia nelle sedi internazionali sulle questioni riguardanti le regole per Internet e per i servizi on-line ed anche nel coordinamento degli organi deputati alla prevenzione del Cyber crime e nei contatti con gli analoghi organi degli altri Paesi.

5.6. Conclusioni

Secondo quanto Freeman e Soete (1994, pag. 163) sostenevano agli inizi degli anni Novanta, “i prodotti ed i servizi ICT hanno costituito, negli ultimi trent’anni, la categoria dove i prezzi sono calati maggiormente… nonostante il trend inflazionistico generale”. Ciò “basta a dare consistenza all’idea che un’economia basata sull’ICT potrebbe avere un buon successo nel mantenere ancorati i prezzi. Ma può generare posti di lavoro?”.
In altre parole, potrebbe mettersi in atto quel meccanismo di “compensazione” che tramite l’aumento della produttività, via diminuzione dei prezzi, andrebbe a favorire la crescita dell’occupazione sostenuta da un parallelo incremento della domanda di beni e servizi?
Più che affidare “ai posteri l’ardua sentenza”, ci limitiamo a costatare che a livello microeconomico (di azienda e di settore) le tendenze occupazionali mostrano un segno positivo, ma a livello intersettoriale potrebbero intuirsi anche impatti di tipo negativo (come la riduzione di occupati nel settore dei trasporti e del commercio tradizionale).
Quanto l’esito finale dia risultati soddisfacenti sul fronte occupazionale dipende (come più volte ribadito nel corso della tesi) soprattutto da:

  • gli investimenti pubblici e privati nelle nuove imprese innovative;
    la formazione dei lavoratori e l’impiego di risorse in Ricerca e Sviluppo;
  • la crescita e le misure di espansione della domanda globale (specie delle esportazioni);
  • la flessibilità normativa del lavoro, da intendersi come “temporanea e parziale” nel ciclo di vita lavorativa.

Alla luce di quanto finora esposto, individuiamo quattro tipi di politiche tecnologiche amiche dell’occupazione (Pianta, 1998) che potrebbero essere sviluppate ulteriormente:

  • politiche per l’innovazione di prodotto¹ ed il cambiamento strutturale;
  • politiche per l’economia dell’apprendimento;
  • politiche per stimolare nuova domanda ed organizzare nuovi mercati;
  • politiche nuove per affrontare il cambiamento economico e la società dell’informazione.

Prima politica. Le tradizionali politiche tecnologiche e per gli investimenti hanno sostanzialmente incentivato innovazioni di tipo labour saving, che in ogni caso le imprese avrebbero avuto interesse ad introdurre.
Pertanto, gli sforzi vanno concentrati sulla realizzazione di innovazioni di prodotto, che creino nuove attività economiche e favoriscano il cambiamento strutturale dell’economia verso settori capaci di creare nuovi posti di lavoro nell’industria e nei servizi avanzati. A tale riguardo, elemento fondamentale è lo sviluppo di nuove forme di finanziamento per i progetti più innovativi, che difficilmente potrebbero accedere ai meccanismi odierni di erogazione del credito.

Seconda politica. La rilevanza della conoscenza e dei processi di apprendimento nelle economie dei Paesi sviluppati deve far pensare alle politiche per l’istruzione, per la formazione e per il trasferimento del know how, come ad un sistema che produce e diffonde nuovo sapere.
In particolare, vanno incrementati gli incentivi (di vario genere, ad esempio fiscali e salariali) per le imprese e gli individui che decidano di investire nell’apprendimento; si potrebbe far sì che gli investimenti in capitale umano ricevano un trattamento equivalente a quelli in capitale fisico.
Misure specifiche sono poi necessarie per la fascia di persone a bassa qualificazione più colpite dai problemi della disoccupazione tecnologica, che altrimenti rischierebbero di essere tagliate fuori dal mercato del lavoro per le scarse opportunità di apprendimento loro offerte.

Terza politica. L’aggravarsi della disoccupazione è legato ad un quadro di politiche macroeconomiche restrittive ed a ristrutturazioni produttive a livello globale: la crescita economica non porta più necessariamente ad una crescita dell’occupazione.
Una politica tecnologica amica dell’occupazione dovrebbe saper individuare le attività economiche con un contenuto innovativo che hanno le maggiori potenzialità di aumentare i posti di lavoro attualmente disponibili.
Gli esempi più ricorrenti sono la multimedialità ed i nuovi servizi basati sulle reti di informazione e comunicazione.
Lo Stato in questo campo deve operare come “consumatore intelligente” e, quindi, deve anticipare le evoluzioni della domanda e dell’offerta, favorire “l’incubazione” di nuove attività e l’incontro tra saperi e competenze diverse ed, infine, deve intervenire come organizzatore e regolatore tempestivo dei nuovi mercati emergenti.

Quarta politica. La natura della new economy e della new society è caratterizzata dall’informazione e dall’apprendimento.
Tutto questo suggerisce di riconsiderare maggiormente le forme e gli strumenti per le politiche pubbliche, sviluppando alcune innovazioni istituzionali, che ristabiliscano l’equilibrio tra cambiamento sociale e tecnologico.
Esiste la necessità di riorganizzare l’uso del tempo e delle forme contrattuali (tipiche ed atipiche) che lo regolano.
Le attuali divisioni del tempo (da quella tra formazione e lavoro, a quella tra impiego e tempo libero) devono lasciare posto ad altre maggiormente flessibili ed articolate, che vedano il succedersi di periodi di formazione, di lavoro e di free time. C’è anche la possibilità di diminuire l’orario di lavoro (settimanale, annuale o nel corso della vita) per distribuire i guadagni di produttività (che risultano dal cambiamento tecnologico) e per permettere i processi di apprendimento. Si potrebbe poi favorire l’ampliamento del non profit del “terzo settore”, ove il lavoro salariato si intrecci all’impegno volontario, producendo servizi, che aumentino coesione sociale e qualità della vita, non potendo queste essere fornite dal mercato o da imprese orientate al profitto.
Infine, la riduzione del tempo di lavoro può stimolare la domanda di nuovi servizi multimediali, legati all’apprendimento, che richiedano un elevato uso di tempo da parte di chi li usa.

In conclusione, per lo sviluppo di politiche tecnologiche amiche dell’occupazione serve una notevole innovazione istituzionale ed un ampliamento dell’intervento pubblico rispetto agli obiettivi tradizionali di competitività e riduzione dei costi.
Questi ultimi hanno soltanto peggiorato gli esiti occupazionali dei processi innovativi realizzati dalle imprese.
Allo stesso tempo, occorre affiancare le azioni attuali dal lato dell’offerta (che sostengono le capacità tecnologiche delle imprese), con nuove azioni di stimolo della domanda e di organizzazione dei mercati che privilegino le innovazioni di prodotto e l’aumento della produzione, aumentando così l’occupazione.
Infine, si devono programmare nuove politiche, legate all’affermarsi delle tecnologie ICT ed adeguate ai processi di cambiamento economico correlati. Esse devono intervenire sulla formazione e l’apprendimento, sulla riduzione e redistribuzione del tempo di lavoro, sulla ricerca di nuove risorse per finanziare politiche pubbliche capaci di redistribuire i benefici promessi dal progresso tecnico a tutta la collettività.

Nota 1: dati delle indagini sulle innovazioni introdotte dalle imprese in Italia (Pianta, 1998) mostrano che le innovazioni di processo e quelle di prodotto hanno effetti opposti sull’occupazione: le prime sostituiscono sistematicamente lavoro, mentre le seconde possono avere effetti positivi, specie in periodi di espansione della domanda. In Italia si registra una forte prevalenza di innovazioni di processo, mentre quelle di prodotto sono spesso limitate a prodotti nuovi solo per l’impresa o per il mercato interno. Naturalmente, la distinzione dell’impatto delle innovazioni di prodotto e di processo sull’occupazione è limitata agli effetti diretti che il cambiamento tecnologico ha nell’impresa che lo introduce, mentre trascura quelli indiretti e di compensazione che potrebbero verificarsi.

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